Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Per lo storico Eric Hobsbawm l’America Latina era “un laboratorio del cambiamento storico, un continente fatto apposta per scardinare le verità convenzionalmente accettate”.

L’America Latina è un altro occidente, sospeso tra la modernità di megalopoli punteggiate da grattacieli e gli arcaismi degli altopiani andini e delle giungle. Un continente sospeso tra sviluppo e sottosviluppo, tra l’Ovest e il Sud del mondo. Un continente cha si è ispirato alle culture politiche mutuate dall’Europa, ma che le ha riadattate al proprio contesto e alle proprie sfide, forgiando fenomeni e vocabolari politici non perfettamente decifrabili con i canoni interpretativi che segnano le coordinate del dibattito pubblico europeo. Un continente attraversato da trasformazioni che interrogano anche noi, dall’altra parte dell’Atlantico. Che ci parla di sperimentazioni politiche, economiche e sociali di un mondo in divenire che sembra destinato ad esercitare un peso crescente nella vita internazionale del prossimo futuro. Un mondo in cui sono emblematiche e cruciali, forse più che in altri contesti, le sfide dell’utilizzo delle risorse, della risoluzione delle diseguaglianze, del riconoscimento dei diritti.

Nonostante tutte le diversità che attraversano da un capo all’altro l’America Latina, il subcontinente sembra essere tenuto insieme da una sorta di “comunità di destino” che ammette poche eccezioni. Dopo aver vissuto il trauma delle dittature militari tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta, il ritorno alla democrazia è stato accompagnato per due decenni dall’adozione delle ricette economiche neoliberiste dettate dai piani di aggiustamento strutturale promossi da Fondo monetario internazionale e Banca mondiale. Piani di aggiustamento caratterizzati dalla dismissione del settore pubblico in economia; dalle liberalizzazioni, dalle deregolamentazioni, dalle misure di austerità nel tentativo di contenere il mostro del debito, dal taglio alle spese sociali. Molti hanno definito questo periodo “il decennio perduto” per le conseguenze economiche e le ricadute sociali che quelle scelte hanno prodotto.

Sul finire degli anni Novanta, la crisi economica, il disagio sociale, la delegittimazione della classe politica hanno prodotto grida di rabbia e di sfiducia che hanno echeggiato nell’intero Cono Sud, da Caracas a Buenos Aires.

E’ in questo contesto che all’inizio del XXI secolo diversi paesi dell’America Latina sono stati teatro di un significativo cambio di paradigma politico. Nuovi movimenti e nuovi leader si sono imposti in libere consultazioni elettorali e, con modalità e radicalità differenti, hanno dato corso a un nuovo ciclo progressista. Un cambiamento che è stato definito marea rosada.

Questa marea ha avuto alla sua base dei tratti portanti comuni: il rifiuto delle politiche neoliberiste; la ricerca di uno sviluppo diverso, basato su un ruolo attivo del settore pubblico in economia e sul sostegno al welfare nel tentativo di realizzare un modello che tenesse in un rapporto simbiotico la crescita economica e l’inclusione sociale.

L’attenzione posta nell’azione di governo agli strati più marginali della popolazione nel campo dei diritti sociali ha dato risultati lusinghieri in termini di riduzione della povertà e di rafforzamento delle classi medie.

La povertà nella regione è diminuita dal 42 al 25% grazie alle politiche redistributive. Passi avanti significativi sono stati compiuti anche sulla strada dell’integrazione regionale e della cooperazione con gli altri Sud del mondo.

In questo quindicennio l’America Latina ha rappresentato un interessante laboratorio.

E’ stato questo scenario che ha fatto parlare, con qualche forzatura, il sociologo brasiliano Emir Sader, dell’Università di San Paolo, di un “modello latinoamericano”. Un modello che veniva vantato non solo come superiore dal punto di vista economico rispetto al modello neoliberale nordamericano ma che veniva valorizzato in quanto superiore anche dal punto di vista politico, sociale e morale.

Tuttavia la marea rosada, come è stata definita, sembra essere ormai rifluita in gran parte in una risacca grigia (resaca gris). Il ciclo progressista è riuscito a redistribuire la ricchezza ma non è riuscito a cambiare la realtà di economie dipendenti dall’esportazione di materie prime. La sua sfida pare essersi arenata contro gli scogli costituiti del calo del prezzo delle commodities e dall’appannamento della capacità dei governi di sinistra di costruire consenso attorno alle loro proposte nella nuova e difficile congiuntura.

Oggi la risacca disegna un continente che assomiglia più a un caleidoscopio che a una realtà definibile in termini di “modello” e i paesi del subcontinente attraversano una fase di incertezza e inquietudine circa la direzione di fondo da perseguire per determinare le loro politiche.

Spartaco Puttini
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

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