Il recente rapporto preparato dal Conseil national du numérique (Consiglio nazionale digitale) per il Ministero del Lavoro francese rappresenta una lettura di grande interesse per tutti coloro che sono interessati ad approfondire il significato e la direzione delle trasformazioni del lavoro e del welfare nella cosiddetta era digitale. La domanda chiave a cui il rapporto cerca di rispondere è quella legata agli effetti sulle condizioni di lavoro derivanti dalla progressiva automazione e digitalizzazione delle attività economiche.
I temi toccati sono molteplici – dalla definizione dei nuovi tipi di lavoro creati dall’economia digitale, al ripensamento delle forme di welfare, agli spazi da assegnare all’intervento pubblico – senza nascondere i molti aspetti oscuri legati all’atomizzazione del lavoro, allo sbriciolamento delle carriere e alla progressiva scomparsa del modello tradizionale di salario. Ciò che però colpisce maggiormente è l’ultimo capitolo del documento, dedicato ad una proposta di adozione di un reddito minimo universale come antidoto all’aumento della disuguaglianza di reddito e alla diffusione di forme di lavoro “digitale” sottopagato o addirittura non remunerato. Siamo quindi di fronte ad una conclusione davvero paradossale: l’innovazione tecnologica e la comparsa di nuovi mestieri in realtà avrebbero come risultato complessivo l’impoverimento e la diminuzione di opportunità di lavoro. Si tratta tuttavia di un fatto non nuovo, bensì noto in campo economico fin dagli anni Ottanta, quando si è cominciato a stimare l’impatto delle tecnologie informatiche sul sistema economico.
L’analisi delle serie storiche ha rivelato fin da subito come partire dagli anni Settanta, proprio quando le nuove tecnologie hanno iniziato a diffondersi su larga scala negli Stati Uniti (nel 1971 l’Intel brevetta il primo microprocessore), si sono sperimentati significativi rallentamenti nella crescita della produttività. In altre parole l’avvento della tanto celebrata rivoluzione informatica non ha generato quella crescita economica che sarebbe stato lecito aspettarsi. Nel 1987 l’economista premio Nobel Robert Solow ha dato il suo nome a tale paradosso affermando che “si può vedere l’era dei computer dappertutto, tranne che nelle statistiche di produttività”. Più recentemente un altro economista, Robert Gordon, ha sostenuto che questo crollo della crescita di produttività è un sintomo non di innovazione, ma più logicamente di una stagnazione tecnologica. Secondo Gordon i veri progressi epocali sono stati altri, dall’acqua corrente e dall’elettricità alla combustione interna e ai motori a reazione. A confronto l’effetto positivo dell’instant messaging e dei videogames sulla produttività e sul tenore di vita non può che impallidire.
L’era digitale, la fase matura del ciclo di innovazioni nell’informatica e nelle telecomunicazioni iniziato negli anni Settanta, rappresenta una crisi di rottura e ricomposizione radicale dei modi di produzione esistenti, in cui tuttavia rispetto ad altri casi storici di innovazioni radicali, come la macchina a vapore o il motore elettrico, non sembrano dischiudersi prospettive future di incremento del benessere, perlomeno ragionando in una prospettiva aggregata. Per molti questa conclusione sembrerà poco plausibile visti i progressi giornalieri nella robotica, nell’intelligenza artificiale e nelle applicazioni digitali a cui assistiamo, ma se andiamo a guardare all’andamento dell’occupazione, quasi ovunque nel mondo in calo in termini di ore lavorate per le coorti anagrafiche fra i 25 e i 54 anni, non possiamo che cogliere gli effetti del sorgere di nuovi modi di produzione, il cui esempio più noto è quel capitalismo delle piattaforme o gig economy che, iniziato con i fornitori di servizi “on demand” quali Uber e Airbnb, sta arrivando a favorire lo spacchettamento dei tradizionali lavori dei “colletti bianchi” in centinaia di micro-attività diverse acquistabili liberamente dalle aziende sul mercato digitale del lavoro free lance.
Il rapporto del CNN ha senz’altro il merito di indicare all’opinione pubblica e alla politica i costi evidenti di queste trasformazioni in termini di esaurimento del modello tradizionale di welfare e di calo della domanda derivante dalla sottoccupazione di strati rilevanti della popolazione. Se la strada indicata – quella di un reddito di base universale erogato da Stati già sull’orlo della crisi fiscale – sia effettivamente percorribile resta però ancora tutto da vedere.
Mario Perugini
Ricercatore di Spazio Lavoro, un progetto di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
13/01/2016