Il ritorno in patria di Khomeini, il primo febbraio 1979, inaugura un periodo di grandi trasformazioni. Da pilastro del containment anti-sovietico, l’Iran si fa promotore di una “terza via” che recepisce in termini religiosi il terzomondismo di Bandung. La lotta al “Grande Satana americano”, colpevole di collusione con la monarchia ed erede, nell’immaginario comune, delle interferenze anglo-russe, diventa un elemento di coesione interna. Quella che solo due anni prima era stata definita dal presidente degli Stati Uniti Jimmy Carter “un’isola di tranquillità in un mare in tempesta” si trasforma nell’epicentro di un cambiamento epocale in tutta la regione: la rivoluzione costituisce un modello di mobilitazione politica che ispira ovunque movimenti sunniti e sciiti e alimenta la competizione con l’Arabia Saudita.
Sul piano interno, la monarchia viene sostituita da una Repubblica Islamica fondata su un sistema duale di potere in cui l’ultima parola spetta al corpo religioso. E’ merito di quest’ultimo avere unito le molteplici anime della rivoluzione, grazie alla guida carismatica di Khomeini e all’offerta di un progetto autoctono, alternativo a ideologie screditate. Un progetto che è articolato in un linguaggio condiviso ma che esprime una rilettura in senso attivista della dottrina sciita, tradizionalmente quietista. Paradigmatica è la ridefinizione della figura di Hussain, che nel VII secolo aveva rivendicato il diritto a guidare la comunità musulmana in quanto diretto discendente del profeta Muhammad. Ucciso a Karbalā nel 680 dagli “usurpatori” sunniti della dinastia omayyade, Hussain era diventato per gli sciiti espressione quasi masochistica del desiderio di martirio. Nel periodo immediatamente pre-rivoluzionario, il suo sacrificio viene reinterpretato, trasformandosi in un incitamento alla rivolta destinato a far crollare il sistema politico. Karbalā non è più un evento irripetibile da commemorare; da emulare, semmai, poichè Yazid, il califfo “empio”, rivive nello Shah.
Le differenze interne all’opposizione anti-Shah verranno alla luce all’indomani della rivoluzione; gli alleati nazionalisti, di sinistra e il clero “moderato” saranno eliminati, politicamente e fisicamente. Del resto, se si rivendica uno “stato islamico” ed è il corpo religioso a decidere qual è il “vero” Islam, tutti gli altri sono potenzialmente devianti. In ambito sunnita, dove è assente qualsiasi gerarchia e i religiosi custodiscono e non interpretano la Rivelazione, sono spuntati ovunque “autodidatti del sacro”. In ambito sciita è più difficile contestare i vertici religiosi, gli unici a conoscere il senso profondo del Corano.
La rivoluzione quindi trae legittimazione da una rivisitazione dell’Islam in chiave anti-sistemica, avvenuta anche in ambito sunnita nei decenni precedenti, ma con caratteristiche diverse. Con il ritorno di Khomeini, la rilettura della dottrina sciita assumerà valore legittimante del nuovo ordine: ora che lo Shah/Yazid è stato sconfitto, al suo posto devono governare i vertici religiosi, gli unici, secondo la teoria del velāyat-e faqīh (il governo del giurisperito) elaborata da Khomeini, legittimati a farlo. Con questa dottrina si scardina la dottrina sciita classica, per la quale qualsiasi governo era illegittimo fino al ritorno del Mahdī (il dodicesimo Imam, entrato in occultazione nel X secolo e destinato a tornare alla fine dei tempi)e il corpo religioso aveva compiti solo inerenti al sacro.
Dietro la retorica della terza via, nella fase post-khomeinista l’Iran adotta in larga misura un modello di governo desunto dall’Occidente e si uniforma ai dettami del sistema internazionale. Ma è in nome dell’Islam, un Islam rivisitato, che agli ayatollah non si può disobbedire. La sola repressione non spiega la sopravvivenza, dopo 35 anni, del regime iraniano.
Elisa Giunchi
Professore associato di Storia e Istituzioni dell’Asia,
alla Facoltà di Scienze Politiche dell’Università degli Studi di Milano
01/02/2016
Approfondimenti multimediali
1 febbraio 1979. Khomeini ritorna in Iran dopo la caduta dello Shah. Guarda il video: