I movimenti sociali degli ultimi anni, dalla primavera araba, agli indignati spagnoli e greci, fino a Occupy Wall Street, hanno visto la partecipazione di una generazione di millenials o nativi digitali, quelli nati negli ’80 o nei ’90. Questa generazione è stata spesso rappresentata come una generazione politicamente apatica ma al tempo stesso esperta di tecnologia, stanca dei vecchi rituali della politica di sindacati e partiti del ‘900 ma al tempo stesso ossessionata dall’ultimo gadget e dall’ultima app. È dentro questa generazione che gli attivisti dei movimenti delle piazze del 2011 sono riusciti a creare un seguito molto maggiore a quello raggiunto al suo apice dal movimento no-global. In questa impressionante capacità di guadagnare popolarità un ruolo importante è stato giocato dall’uso accattivante di tecnologie e linguaggi digitali come mezzo per costruire una politica di popolo dal basso.
Il movimento no-global – che si svolse tra la fine degli anni ’90 e l’inizio degli anni 2000 e prese di mira organizzazioni internazionali come il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio e il G8 – fu il pioniere dell’utilizzo di Internet come strumento di protesta e annoverò tra le sue fila alcuni dei migliori “smanettoni” di quella generazione, molti dei quali, finito il movimento, sono andati a lavorare in posti importanti in compagnie come Twitter, Google o Yahoo. Gli attivisti no-global sperimentarono con le tecnologie digitali e con la loro promessa di offrire un coordinamento flessibile e veramente democratico. Esempio di questa grande innovazione di pratiche politiche e organizzative fu Indymedia, uno dei primi siti di informazione alternativa e il sito che introdusse la filosofia dell’open publishing, senza filtri, né controllo editoriale. Pratica che è poi stata portata nel mainstream da servizi come Facebook e Twitter. Un altro esempio sono i server di posta elettronica per gli attivisti come gli italiani autistici e inventati che dovevano garantire una comunicazione efficace e sicura a manifestanti e gruppi politici. Si trattava di progetti che riflettevano l’idea che il movimento dovesse dotarsi di strumenti autonomi di comunicazione come un passo necessario per poter creare quel “mondo possibile” promesso dagli Zapatisti e dal Foro Sociale Mondiale.
Gli attivisti della generazione del 2011 hanno adottato un’attitudine politica che rispetto a quella dei predecessori è caratterizzata da un evidente pragmatismo. Invece di creare i propri strumenti di comunicazione autonoma, i loro server, le loro piattaforme, i loro siti, la nuova generazione di manifestanti ha fatto uso di servizi di imprese corporate come Facebook e Twitter. Pagine Facebook e canali Twitter sono cosi diventati i luoghi privilegiati di conversazione e di organizzazione di movimento. Questo sviluppo ha lasciato di sasso molti attivisti tecnologici della precedente generazione, delusi da come i giovani non avessero capito l’importanza della “sovranità tecnologica” e i rischi connessi a utilizzare la tecnologia del nemico, delle grandi imprese capitaliste che sono complici in un sistema che crea livelli inaccettabili di diseguaglianza economico-sociale. Qualcuno potrebbe prendere questo atteggiamento come una dimostrazione di ingenuità da parte degli attivisti. Invece questo cambiamento riflette innanzitutto il cambio culturale che è sopravvenuto nei movimenti di protesta del 2011 e in quelli che a loro sono succeduti. L’uso di piattaforme come Facebook e Twitter ha a che fare con una semplice considerazione, che riflette lo spirito populista dei movimenti contemporanei: è lì che ci sono le persone, è lì che dobbiamo andare. Mentre i movimenti no-global coltivavano un immaginario di isole nella rete, di piccoli angoli di resistenza, come le zone temporaneamente autonome descritte dal visionario Hakim Bey, i movimenti del 2011 hanno abbracciato una visione politica che ha l’ambizione di intercettare il senso comune, occupando quei siti che sono diventati snodi centrali dell’esperienza quotidiana e fare uso della cultura “digital-popolare”(dei meme, delle pagine Facebook, degli hashtag, degli emoticon) che costituisce l’equivalente contemporaneo di quello che Gramsci descriveva come il “nazionalpopolare”.
Paolo Gerbaudo
Director of the Center for Digital Culture del King’s College London
15/03/2015