Muri e confini sono uno degli elementi più ricorrenti dell’immaginario e delle retoriche politiche dell’ultimo trentennio. All’origine, tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta, essi figuravano come il simbolo per eccellenza del riassorbimento delle grandi lacerazioni ideologiche e geografiche del ventesimo secolo. E non solo perché fu proprio la caduta di un muro, quello di Berlino – vero e proprio meta-confine dell’epoca bipolare – a sanzionare la catastrofe definitiva del mondo della guerra fredda e della sua proiezione spaziale, la cortina di ferro. Ma perché la retorica del superamento dei confini continuò a permeare anche tutto il decennio successivo, tanto da rispecchiarsi in molte delle sue parole-simbolo: “riunificazione”, appunto, ma anche “integrazione”, “allargamento”, “globalizzazione” – tutte parole che alludevano a uno spazio avviato a diventare sempre più inclusivo, indifferenziato, “liscio” o, come scrissero altri, “piatto”. Unito agli altri superamenti illusori degli anni novanta (della guerra, delle ideologie, delle crisi cicliche del capitalismo), questa rappresentazione spaziale contribuì a comporre la marcia trionfale del decennio, segnata dalla religione civile della transizione al mercato e alla democrazia e ispirata alla promessa della “fine della storia” (o, meglio, della “cattiva storia”) che l’avrebbe inevitabilmente seguita.

A prima vista, quello che stiamo vivendo da alcuni anni a questa parte non sembrerebbe altro che il rovesciamento quasi ironico di questa geografia immaginaria. All’aspettativa di una caduta a cascata dei muri e dei confini infraeuropei è subentrata la riemersione a catena di muri dall’Ungheria alla Slovenia alla Croazia (oltre a quello più “gentile” ma ancora più impermeabile tra Francia e Regno Unito), accompagnata da un rafforzamento dei confini esterni dell’Unione Europea e da un ridimensionamento della libera circolazione al suo interno. Così come, nel discorso pubblico, dalla retorica dell’allargamento, della “porta aperta” e del meticciato si è rapidamente passati a quella onnipresente del “contagio” – prima il contagio della crisi finanziaria, poi quello dei flussi migratori e, da ultimo, quello del terrorismo.

Ma è sufficiente guardare appena sotto la retorica del “mondo senza confini” dell’immediato dopoguerra per constatare come, in realtà, il rapporto tra sconfinamento e confinamento fosse sin dall’inizio ambivalente o, nella peggiore delle ipotesi, ipocrita. Il “mondo senza confini” del mercato e della democrazia si presentava, infatti, come uno spazio sconfinato al proprio interno, ma restava confinato verso l’esterno; anzi tanto più perdevano significato i confini interni quanto più ne acquistavano i confini esterni. La sua geografia rimaneva, in altre parole, una geografia binaria, sebbene in un senso del tutto diverso da quello della guerra fredda. Mentre quest’ultimo era tenuto in equilibrio dalla contrapposizione tra due spazi pieni (di potere, ideologia e simboli), la geografia post-bipolare si fondò sin dall’inizio sulla contrapposizione (e sulla discriminazione) tra uno spazio rappresentato come pieno, anzi pienissimo, e uno spazio circostante rappresentato come residuale, anacronistico, quasi primitivo, vettore non più di alternative politiche ma di contaminazioni – le “conseguenze delle crisi” evocate nei documenti di sicurezza degli anni novanta, l’incursione terroristica, il flusso migratorio e, sullo sfondo, persino la paura atavica della pandemia.

A questa geografia doppia avrebbero continuato a ispirarsi, non casualmente, tanto l’imperativo strategico di “mantenere la guerra a distanza” – secondo la raccomandazione di tutti i principali documenti statunitensi degli ultimi vent’anni – quanto le politiche di “prevenzione e gestione delle crisi” di tutte le principali organizzazioni internazionali. Mentre è proprio il fallimento di questa “presa di distanza” (simboleggiato dai flussi migratori e dagli attentati terroristici) che ha prodotto la riemersione dei muri fisici ai confini esterni dell’Europa e degli Stati Uniti. Questi muri sono meno la smentita che lo svelamento della natura inconfessabile del mondo pacifico e affluente del dopoguerra fredda. Il suo confinamento, che negli anni novanta poteva ancora prendere la forma della missione (militare o umanitaria) lontano da casa, regredisce alla forma primordiale della casa sotto assedio.

Alessandro Colombo
Università degli studi di Milano

 

Vignetta: confini dell’Europa, 1870

 


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