Nelle elezioni dell’8 novembre la contea di Genesee è stata una delle poche del Michigan in cui si è delineata una maggioranza democratica (52,4%); quella a livello statale, di misura ma con tutti i suoi diciotto rappresentanti, andava ai Repubblicani. Non era certo la prima volta che in Michigan si affermava una maggioranza repubblicana (nelle elezioni presidenziali, anzi, ininterrottamente dal 1972 al 1988), ma a questo giro ha attirato l’attenzione come una delle tessere del domino crollato addosso, Stato dopo Stato, a tutte le previsioni ufficiali.
Un domino che, per un tratto decisivo, ha seguito la Rust Belt: l’area da New York all’Illinois che costituì la spina dorsale dell’America industriale del Novecento, fu piegata dalla deindustrializzazione a partire dalla fine degli anni sessanta e si è affacciata sul ventunesimo secolo in eterna crisi di occupazione, demografica e di identità. Crisi che Trump ha cavalcato: i primi tentativi di analisi del suo successo si sono incentrati sul voto di protesta dei bianchi della Rust Belt e sulle rodomontesche promesse di far ripartire il lavoro industriale, contro messicani e automazione.
Flint è il capoluogo della contea di Genesee e il luogo di fondazione (1908) della General Motors. È una delle città simbolo della parabola di ascesa e declino dell’industria dell’auto e delle città cresciute in simbiosi con essa, fino all’esplosione del disagio sociale. È anche un luogo simbolo della storia del movimento operaio americano, e della tutt’altro che armoniosa costruzione del New Deal, per via dello sciopero che aprì al sindacato le porte dell’industria dell’auto. L’area di Detroit era stata il regno delle politiche antisindacali dell’open shop, che combinavano alti salari e sistemi di controllo, ma già la recessione del dopoguerra e poi soprattutto la Depressione avevano lasciato spazio solo ai secondi.
Nata nel maggio 1935 sotto l’ombrello dell’AFL, ma presto uscitane per costituire il nerbo del CIO, la United Auto Workers Union (UAW) si proponeva di superare la crisi in cui lo sviluppo della mass production prima e la depressione poi avevano precipitato il sindacato. Proprio quest’ultima diventava l’occasione di aprire una breccia nelle roccaforti della mass production, di cui aveva minato le promesse di prosperità e l’onnipotenza politica.
Si trattava perciò di affrontare i due giganti dell’industria dell’auto: Ford e General Motors. Della GM venne individuato un punto vulnerabile nelle fabbriche produttrici di matrici: solo due per tutti i suoi modelli. A partire dal 30 dicembre 1936, quando giunse la notizia che quelle di Cleveland erano andate in sciopero, le officine di Flint vennero bloccate e occupate.
Il sitdown strike, che aveva lo scopo di impedire la ripresa della produzione mediante l’assunzione in massa di strikebreakers, era già stato messo in pratica altre volte dalla UAW. L’occupazione delle fabbriche di Flint spicca per importanza per vari motivi. Per le modalità della sua organizzazione interna, in cui un sistema di rappresentanze, regole e sanzioni si intrecciava con una ricca vita assembleare e conviviale, sorretta da reti di solidarietà all’esterno della fabbrica. Per la durezza dei tentativi di sgombero da parte della forza pubblica e per il muro eretto dai vertici aziendali, che si rifiutarono a lungo di riconoscere nel sindacato un interlocutore. Per la posizione oscillante ma, a conti fatti, di mediazione assunta dal governo statale e federale, ovvero il governatore Frank Murphy e il presidente Roosevelt.
Dopo un mese e mezzo di occupazione, l’11 febbraio 1937 un accordo sancì per la UAW la prerogativa a contrattare in nome dei suoi iscritti in tutte le fabbriche GM, anche se solo per i successivi sei mesi. La contrattazione collettiva entrava per la prima volta nella grande industria automobilistica e consegnava alla UAW un protagonismo politico che avrebbe mantenuto negli anni a seguire. Rispetto alla Ford, la GM di Sloan dimostrava una maggiore plasticità politica e una maggiore sensibilità ai nuovi ordinamenti di rappresentanza e negoziazione dei grandi interessi organizzati. Il portato di svolta dello sciopero risiede soprattutto nel riconoscimento della contrattazione collettiva e nella legittimazione, davanti al governo e all’industria della mass production, del sindacato come rappresentante degli interessi dei lavoratori. La partita si giocò, dunque, scegliendo il terreno strategico della produzione di matrici in una città satellite di Detroit, nella dialettica di organizzazione del lavoro e organizzazione degli interessi: cosa sia pensabile riproporne oggi è una domanda che si può solo lasciare aperta.
A ottant’anni di distanza, lo sciopero di Flint ci ricorda che dietro (e dentro, durante e dopo) i grandi compromessi sociali vi sono storie di conflitti, anche feroci, che solo in parte possono essere integrate in una teleologia del New Deal. E di questi conflitti, tra sabotaggi e innovazioni, resistenze e repressioni, è ricca la storia del movimento operaio negli Stati Uniti – e, se se ne può ancora parlare, la sua memoria storica.
Bruno Settis
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