Una delle massime più citate e abusate del generale prussiano Carl von Clausewitz recita che la guerra non sia altro che la prosecuzione della politica con altri mezzi. La guerra non sarebbe dunque, solamente un atto politico, ma un vero strumento della politica, un seguito del procedimento politico, una sua continuazione con altri mezzi. L’affermazione appare oggi assai scontata. Tuttavia se si osservano i recenti atti di guerra si può constatare quanto questa massima sia stata fraintesa dai decisori politici. Il presupposto fondamentale di ogni intervento armato è infatti che sia chiaro l’obiettivo politico. Conseguentemente l’intervento deve essere valutato nella sua opportunità e nelle modalità in base a questa premessa. Sostanzialmente la guerra dovrebbe essere l’ultima risorsa per il conseguimento di un obiettivo politico chiaro.
Talvolta però la guerra la si intraprende come formula sostitutiva alla possibilità di ottenere l’obiettivo politico e implicitamente ri-orienta l’obiettivo stesso. Il caso della crisi libica di queste settimane ne pare un esempio. La comunità internazionale è qui impegnata da un anno e mezzo nel tentativo di ricomposizione politica e nella creazione di un governo unitario. Tuttavia i nodi che hanno impedito il successo del negoziato condotto sotto l’egida delle Nazioni Unite sono tutt’ora irrisolti, in particolare il ruolo che avrà il generale Khalifa Haftar nel futuro della Libia e la perdurante ostilità all’accordo di buona parte delle milizie e delle forze politiche della Tripolitania. La condizione semi-anarchica del paese ha permesso nell’ultimo anno, tra le altre cose, il proliferare di formazioni che si sono dichiarate appartenenti allo Stato Islamico. Anziché perseguire fino in fondo il tentativo di stabilizzazione del paese sembra emergere con sempre più impellenza la volontà di un intervento armato contro lo Stato Islamico.
Quando nel corso degli ultimi 5 anni si è più volte ripetuto che ci si deve occupare della Libia certamente si intendeva qualcosa di più di un nuovo intervento armato. Si intendeva accompagnare il tentativo libico dello sviluppo di un sistema politico partecipativo, per il quale nel 2012 andarono a votare più del 60% dei libici che ne avevano diritto, pur non avendo alcuna idea di cosa fosse una democrazia o il sistema di voto democratico dopo 42 anni di regime di Gheddafi. Si intendeva la necessità di “nation bulding” e di “state building” in un paese dall’identità nazionale ancora giovane, che era stato retto negli ultimi decenni unicamente dalla figura di un leader padrone che aveva sistematicamente demolito ogni istituzione capace di creare un contrappeso alla sua personale gestione del potere che gli derivava principalmente dal ruolo di redistribuitole della rendita petrolifera. Un obiettivo politico chiaro insomma, seppur molto difficile, inutile negarlo.
Ma nelle semplificazioni giornalistiche di questi giorni è spesso implicita una corrispondenza pericolosa: non dare subito avvio a una spedizione militare, vuol dire non avere un ruolo, vuol dire non occuparsi della Libia. In realtà occuparci della Libia significa affrontare le difficoltà del paese. E non sembra che con i bombardamenti aerei si possa fermare la fragilità delle istituzioni, ricomporre il quadro politico e dare una nuova fiducia a una popolazione che nel 2014 ha votato un nuovo parlamento con la sola percentuale del 18% degli aventi diritto, perdendo in pochi mesi gran parte di chi credeva in un processo di partecipazione pacifica. Speravamo che Afghanistan e Iraq l’avessero fatto capire: serve continuare il percorso nella ricostruzione del paese, serve un nuovo “patto civile e sociale” che faccia da argine alla frammentazione, serve affrontare i nodi politici interni e internazionali. Per esempio premere sul generale egiziano Al Sisi perché faccia cadere la carta Haftar, suo protetto e garante di una Cirenaica filo-egiziana.
È logico pensare che un intervento armato in un paese che faticosamente cerca di ricomporre il quadro politico possa definitivamente compromettere le residue speranze di pacificazione e far saltare definitivamente l’obiettivo politico che la comunità internazionale, seppure con riprovevole ritardo, si era posto. È molto facile che un intervento esterno faciliti il compattamento dei gruppi islamisti attorno alla forza preponderante, lo Stato islamico, aumentandone la portata in termini di potenziale bacino di reclutamento e facilitando una nuova campagna di propaganda contro l’aggressore occidentale. Lo Stato Islamico in Libia è certamente una minaccia rilevante ma sinora è piuttosto contenuta numericamente e non sembra aspettare altro che un bombardamento massiccio, una nuova azione militare. Non aspetta altro che la rinuncia al nostro obiettivo politico.
Arturo Varvelli
11/03/2015
Biografia dell’autore
Arturo Varvelli è responsabile del Programma di ricerca sul Terrorismo dell’ISPI, esperto di Libia e autore di diversi volumi sul paese nordafricano e sulla politica estera italiana. È inoltre docente a contratto in Storia e istituzioni del mondo arabo presso lo IULM di Milano e Associate Fellow presso l’EFD (European Foundation for Democracy) di Bruxelles. Nel 2006 ha conseguito il dottorato di ricerca in Storia delle relazioni interazionali presso l’Università degli Studi di Milano. Ha preso parte a progetti di ricerca commissionati dall’ufficio studi della Camera dei Deputati e del Senato, del ministero degli Affari esteri e del Parlamento europeo.