“The people who move the world can also stop it”
American longhshoreman
“Le macchine di ferro ci sono sempre, ma obbediscono ai bits senza peso”
Italo Calvino, Lezioni americane
Negli ultimi anni la logistica – o supply chain – da funzione secondaria all’interno dell’impresa fordista si è imposta, nel lessico scientifico e divulgativo, come vero e proprio paradigma organizzativo nella società contemporanea. Ciò che in primo luogo colpisce è la pervasività di questo paradigma. La lean production nell’industria dell’automobile, il lavoro di cura negli ospedali, la grande distribuzione: un insieme variegato di attività è accomunato dall’adesione al principio del just in time, dall’integrazione di flussi informatici e flussi fisici. Un secondo aspetto è la sua ambivalenza. Da un lato il post-fordismo e il “nuovo spirito del capitalismo”, esaltano la leggerezza, la flessibilità e l’autonomia, dall’altro accentuano forme di controllo e di taylorizzazione.
La ristrutturazione dell’impresa capitalistica ha decomposto le unità produttive in forme reticolari e concatenate. Al centro di queste reti c’è l’impresa madre, che conserva il cuore del processo produttivo mentre esternalizza il resto del processo a dei terminali con i quali intrattiene una relazione che non è più fondata sull’autorità gerarchica ma sulla semplice relazione commerciale.
Quello che caratterizza il capitalismo post-fordista, e la logistica, è la capacità di tradurre più che di imporre un linguaggio uniforme. L’impresa capitalista non intende uniformare queste eterogeneità ma piuttosto le valorizza, e allo stesso tempo le mette in connessione. Da un lato la logistica lascia autonomia alle forme singolari che compongono la catena e dall’altro le ricrea e con un movimento opposto le riporta sotto il controllo dei flussi informatici.
Le lotte sindacali che, a partire dal 2010, hanno coinvolto gli interporti e i poli logistici del Veneto e dell’Emilia-Romagna fanno parte di un ciclo mondiale che ha toccato Busan in Corea del Sud, Schnezhen in Cina, Chittagong in Bangladesh, Sokhna in Egitto, Johannesburg in Sud Africa, il Pireo in Grecia, Tangeri in Marocco, il Canale di Panama e la costa occidentale del Nord e Sud America. Come in molti dei casi citati gli scioperi della pianura padana hanno avuto come protagonista una nuova classe operaia, composta quasi esclusivamente da immigrati, originari in particolare del subcontinente indiano, del Maghreb e dell’Europa orientale.
Per un paese di immigrazione recente come l’Italia si tratta di un fenomeno inedito. Le “lotte dei facchini”, come le hanno ribattezzate i giornali locali, hanno denunciato e svelato l’esistenza di diffuse situazioni di sfruttamento e in molti casi gli operai sono riusciti a migliorare le proprie condizioni di lavoro. Questo ciclo di lotte tuttavia sembra ormai concluso anche se la conflittualità resta accesa e l’aggressività della risposta padronale ha provocato spesso episodi di violenza e incidenti anche mortali, come accaduto ad Abd Elsalam Ahmed Eldanf, operaio della multinazionale inglese GLS investito e ucciso da un camion della stessa azienda durante un picchetto.
Gli scioperi hanno mostrato la vulnerabilità della catena logistica. Essa riposa su un equilibrio molto fragile e una pianificazione al minuto che può essere messa in crisi anche solo bloccando un magazzino durante l’ora di punta. È probabile che le conquiste ottenute dai lavoratori del settore possano essere messe in discussione. Finora gli operai hanno saputo sfruttare molto bene questo punto debole, ma il limite di queste lotte è stata la difficoltà nel prendere in considerazione l’insieme della catena di produzione e distribuzione, la global supply chain, che è composta anche da un altro elemento: il consumo. L’accelerazione dei tempi di lavoro a cui sono sottoposti gli operai è strettamente legata alla nuove dinamiche del consumo e alla diffusione del commercio online. Le aziende hanno bisogno di vendere più prodotti possibile e le innovazioni nella logistica permettono loro di offrire al consumatore prezzi bassi e tempi di consegna ridotti.
Che fare dunque della supply chain? Adottare una prospettiva globale o aggredire singoli anelli della catena? È un’infrastruttura politico-tecnologica che va cancellata attraverso un movimento rivoluzionario oppure non è possibile tornare indietro e quel che resta da fare è riconoscere i benefici che essa apporta e cercare di conservarli? Una questione urgente, ma che allo stesso tempo evoca fortemente un dibattito antico. Cento anni fa i leader del movimento rivoluzionario si ponevano le stesse domande. Che fare dello Stato? Che fare del fordismo?
Francesco Massimo
École normale supérieure – Paris
16/11/2016