Giornalista e storica

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“My fellow Americans, we live in a challenging and tumultous time”. Era questo uno degli incipit che molti commentatori politici si aspettavano da un Donald J. Trump, riconciliato con la complessità di un Paese diviso nel giorno del suo insediamento alla Casa Bianca. E invece sono le parole pronunciate per l’inaugurazione a Capitol Hill dal leader della minoranza democratica al Senato Chuck Schumer, mentre il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti, Repubblicano, ha affidato la scrittura del suo inaugural address a una delle principali voci della destra alternativa e nazionalista americana, Steve Bannon.

Lo stupore che ne è derivato si è già riverberato a livello internazionale, motivando ancor di più le migliaia di donne e uomini che il giorno seguente hanno manifestato in strada la loro protesta nella Women’s March contro il sessismo e la xenofobia che ha caratterizzato l’ascesa di Trump. Del resto il discorso di inaugurazione del neopresidente è sembrato una riedizione della sua campagna elettorale, marcandone i tratti populisti: dalla riscossa contro la classe dirigente che “ha protetto se stessa ma non i cittadini” alla formazione di un “movimento storico” che si svincola dai partiti di ogni colore. L’agenda di politica economica di Trump segnerà probabilmente uno scarto anche con la tradizione repubblicana di libero mercato e stato minimo. Il protezionismo “guiderà a una grande prosperità e forza” ha chiarito il neopresidente, coniando lo slogan “compra americano e assumi americano”. Non è ancora definito se questa traiettoria sarà regolata direttamente dal governo federale, ma d’altro canto sembra improbabile che il grande stimolo alle infrastrutture nazionali per incentivare i posti di lavoro che Trump promette possa arrivare da un approccio diverso da quello statalista. A guidare la politica commerciale, sulle tasse, sull’immigrazione e nelle relazioni internazionali sarà il principio “America first”, un ricorso storico molto discusso dato che vi riecheggia il nome del gruppo di intellettuali isolazionisti che nel 1940 invocò una politica di appeasement con la Germania quando Franklin D. Roosvelt stava per entrare in guerra.

L’interesse nazionale è un principio di realpolitik condiviso, spesso usato dallo stesso Barack Obama per giustificare scelte di seconda linea sui fronti più caldi del pianeta, ma nelle parole di Trump il disimpegno internazionale sembra assurgere a dottrina, con una messa in sicurezza dei “confini” che ritorna più volte nel suo discorso. Unica garanzia per il suo elettorato (e gli alleati) è che il radicalismo islamico sarà il nemico numero uno. Come da temperie populista, dall’orizzonte di Trump scompare ogni accenno ai pregi della globalizzazione, alle conquiste che essa ha portato in termini di accrescimento culturale, scambi, comunicazione e avanzamento tecnologico. In un tale contesto emerge anche un’immagine stereotipata delle minoranze, mai considerate apertamente, nel discorso inaugurale, per le loro problematiche peculiari. Nell’inaugural address si citano “madri e figli intrappolati nelle inner cities (centri città)”, evocando un antico pregiudizio conservatore di bambini afroamericani e latini senza padre che aspirano al benessere dei sobborghi abitati prevalentemente da bianchi.

È il “sangue rosso” del patriottismo il colore unificante del discorso di Trump, “anche se siamo neri, latini o bianchi”. Non c’è alcun riferimento al multiculturalismo che ha così a lungo caratterizzato l’immagine e l’eccezionalismo americano, né alle diversità di genere, orientamento sessuale e religioso. Non sorprende l’assenza delle questioni aperte del cambiamento climatico, che in campagna elettorale Trump ha più volte messo in dubbio, ma il fatto che passino sotto traccia i valori della democrazia rappresentativa. Come scritto dallo storico americanista Arnaldo Testi nel suo blog: “il beniamino dei nazionalisti bianchi Trump è senza precedenti perché suo predecessore, il presidente nero Barack Obama, è senza precedenti”. Nella prima settimana alla Casa Bianca, tramite ordini esecutivi e memoranda, il neopresidente ha posto uno stop ad ogni ulteriore aumento di spesa per l’implementazione dell’ultima riforma del sistema sanitario anche detta Obamacare; ha annunciato il ritiro degli Stati Uniti dal Trans-Pacific Partnership, l’accordo commerciale con 12 Paesi dell’area del Pacifico la cui ratifica giaceva al Congresso; ha deciso di riprendere i lavori degli oleodotti Dakota Access e Keystone XL che Obama aveva sospeso per le proteste degli ambientalisti e ha impresso un giro di vite all’attuazione delle leggi anti-immigrazione. In linea con precedenti amministrazioni repubblicane ha congelato le assunzioni federali e reintrodotto la cosiddetta “Mexico City Policy”, che blocca i finanziamenti federali alle ong internazionali che praticano o informano sull’aborto. Si è infine aperta una frattura con il presidente del Messico Enrique Peña Nieto per l’ordine esecutivo di Trump di costruzione di un muro al confine meridionale degli Stati Uniti.

Marta Gara
Giornalista e storica


APPROFONDIMENTI

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