Si è spesso sostenuto – ad esempio accostando la crisi di sistema del ’43 a quella del sistema dei partiti nei primi anni Novanta – che l’8 settembre segna la fine del patriottismo in Italia. Se in quel momento una patria davvero muore, si tratta di quella delegittimata dagli stessi uomini – prima raccolti intorno al duce, poi al re – che invocano il patriottismo come estrema risorsa di consenso e giustificazione della fuga dinanzi le responsabilità di governo del paese. A quella patria ormai gran parte degli italiani – soprattutto la parte popolare del paese, la cui storica esclusione dalla vita politica si trasforma l’8 settembre in tragico abbandono –sono divenuti in larga parte forzatamente estranei, se non ostili. È quella patria a spingere lontano da sé quegli italiani, incapace com’é di individuare una possibile e decorosa via d’uscita da un conflitto sempre più devastante.
In effetti, l’8 settembre tanto i soldati sui vari fronti quanto gli italiani in patria vengono abbandonati a se stessi, messi di fronte al fatto compiuto della fuga da Roma del re e della corte, con Badoglio e alcuni ministri. Ma come si deve intendere il termine “fuga”? Non già come un precipitoso scappare da un immediato e concreto pericolo, semmai come un intenzionale abbandono della capitale per salvaguardare il re e parte del governo dal rischio di cadere in mano ai tedeschi. Di fuga certo si tratta, ma nel senso che essa è la forma assunta in quel particolare frangente da un disegno prioritario di continuità del potere. Che non sia una fuga improvvisa lo dimostra del resto il fatto che tanto il re quanto Badoglio hanno disposto l’invio in Svizzera di familiari e beni personali, e che già ai primi di settembre viene comandato l’invio di navi a Civitavecchia per l’imbarco alla volta della Sardegna. Solo la presenza tedesca in forza nella costa tirrenica farà propendere l’8 settembre per la direzione opposta, verso un porto dell’Adriatico. Il termine “fuga” va dunque deprivato di qualsiasi connotazione moralistica per essere restituito alla dimensione dell’intenzionalità: rappresenta infatti la consapevole decisione politica di salvaguardare in prima istanza la corona, quindi il capo del governo, come istituzioni garanti la continuità del potere, anche a costo di abbandonare a sé l’esercito e la popolazione, un prezzo che evidentemente si ritiene di poter pagare.
La forma dell’8 settembre è in tal senso coerente con quella del 25 luglio, l’uno porta anzi all’estrema conclusione l’altro. La corona, indecisa sino all’ultimo sul momento in cui intervenire, non aliena all’ipotesi di un fascismo senza Mussolini, anzi favorevole ad un regime autoritario benché non integralmente dittatoriale, si è mossa all’azione il 25 luglio, costretta dall’incalzare della situazione e dal palesarsi della crisi interna del fascismo. Si tratta di una successione al potere di una porzione delle classi dirigenti prosperate all’ombra di quello stesso potere, che dunque non ha luogo contro il fascismo, ma per non venire travolti dal suo crollo e per salvarsi in extremis, pur rimanendo nella scia della politica d’ordine. Non è un colpo di stato, ma una sedizione di palazzo, la compensazione obbligata di un vuoto di potere e d’autorità.
È sotto tale luce che la prosecuzione della guerra al fianco dei nazisti dopo il 25 luglio, anzi la sollecitazione loro rivolta di inviare ulteriori divisioni in Italia, le trattative tardivamente avviate con gli alleati, la repressione sociale e politica, il tentativo di temporeggiare circa l’annuncio dell’armistizio e poi la decisione di non impegnare l’esercito al fianco degli alleati, e addirittura di lasciarlo l’8 settembre senza ordini chiari e precisi sul comportamento da tenere, ed infine la stessa fuga verso sud di Vittorio Emanuele e di Badoglio, appaiono intrecciati in una prospettiva coerente. Il 25 luglio e l’8 settembre sono capitoli di uno stesso racconto: quello del tentativo, per quanto maldestro, e talora caricaturale, di garantire l’autoconservazione del blocco di potere raccolto intorno alla monarchia.
Luca Baldissara
Università di Pisa
08/09/2016
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Anche prima dei 45 giorni che intercorrono tra il 25 luglio e l’8 settembre 1943 non erano mancati chiari segnali di dissenso, esplicitati nei volantini diffusi da organizzazioni clandestine. Dal fondo Resistenza italiana conservato da Fondazione Giangiacomo Feltrinelli presentiamo alcuni esemplari che coprono circa un anno dalla fine del 1942 e le settimane successive al proclama radiofonico di Pietro Badoglio che annuncia l’armistizio. Oltre alle prime pagine del «Corriere della Sera» e dell’«Unità»tra 7 e 9 settembre 1943, anche istantanee di un Paese che nelle stesse ore resiste disperatamente o smobilita nella speranza di tornare definitivamente a casa.
Consigli di lettura
STORIA D’ITALIA DOPO L’8 SETTEMBRE ’43
In forma di testimonianza diretta, attraverso documenti ufficiali e il resoconto degli avvenimenti salienti giorno dopo giorno, Annibale Del Mare accompagna il lettore lungo nove cruciali mesi del secondo conflitto mondiale: dall’8 settembre 1943, data dell’annuncio radiofonico dell’armistizio di Cassibile, fino al 5 giugno 1944, giorno dell’abdicazione di Vittorio Emanuele III.