Lavori in solitudine
Ha ricordato più di venti anni fa André Gorz (La metamorfosi del lavoro, Bollati Boringhieri) come: “L’idea contemporanea di lavoro facesse la sua comparsa solo col capitalismo manifatturiero. Fino ad allora, vale a dire fino al secolo XVIII, la parola «lavoro» (labour, Arbeit, labeur) designava la fatica dei servi e dei braccianti che producevano sia beni di consumo sia servizi necessari alla vita, che richiedevano di essere rinnovati, giorno dopo giorno, senza sosta. Gli artigiani, invece, che fabbricavano oggetti durevoli, accumulabili, lasciati sovente in eredità alla discendenza dagli acquirenti, non «lavoravano»: essi «operavano», e nella loro «opera» potevano utilizzare il «lavoro» di uomini di fatica chiamati a svolgere le mansioni più pesanti e meno qualificate. Solo i braccianti e i manovali erano retribuiti per il loro «lavoro»; gli artigiani si facevano pagare la loro «opera» secondo un tariffario stabilito da quei sindacati professionali che erano le corporazioni e le gilde. Queste bandivano severamente ogni innovazione e qualsiasi forma di concorrenza”.
Gorz in poche righe ci ricorda molte cose, spesso anche contro il senso comune: ovvero che l’innovazione è temuta non dagli ultimi, che comunque dal cambiamento hanno solo da guadagnare, ma dagli intermedi, che qualcosa hanno, invece, da perdere. Non è l’unica cosa che dovremmo tener presente quando parliamo di lavoro. Ne dovremmo tener presente almeno un’altra. Il lavoro non è solo un “dovere”, ma anche un “diritto”. E non solo un “diritto al lavoro”, ma anche i diritti che l’essere umano conquista con e grazie al suo lavoro, fino al diritto di non essere più sfruttato, ovvero che sia abolito lo sfruttamento. E tuttavia, oggi, questa raffigurazione non sembra più descrivere la condizione del lavoro. O le forme in cui si manifestano, nel contesto attuale, “i lavori”.
Ha un peso in tutto questo la dimensione della flessibilità, ma anche la condizione da cui si colloca quella flessibilità, ovvero il fatto che essa si presenta come nuovo “lavoro servile” in cui rimane inevaso o non messo all’ordine del giorno come dare forma ai diritti, e non solo al dovere. E tutto questo, in una rinnovata condizione di solitudine, che non riguarda solo, per certi aspetti nemmeno tanto, la dimensione dell’esercizio del proprio essere attivo produttivamente, ma spesso l’inesistenza di luoghi e modalità in cui raccontare e riflettere della propria condizione.
Quella solitudine allude a una dimensione non solo economica, ma evoca una condizione di socialità insoddisfatta. È una fotografia che icasticamente, ma non impropriamente, Cesare Pavese ha fissato in alcuni versi fulminanti di Lavorare stanca, quando sottolinea come del proprio lavoro occorra prima di tutto parlare con qualcuno. “Altrimenti – scrive – uno parla da solo. È per questo che a volte / c’è lo sbronzo notturno che attacca discorsi /e racconta i progetti di tutta la vita”.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
14/12/2015