Noi giovani siamo cresciuti sentendo economisti, politici e opinionisti sostenere che lo Stato è un problema, se non il problema, sullo sfondo di un modello economico che ci è stato sempre presentato come l’unico possibile. Dagli anni Ottanta il perimetro dello Stato è andato progressivamente riducendosi, il mercato del lavoro è diventato sempre più flessibile, le imprese statali sono divenute “bestie rare”, la parola “tasse” si è trasformata in un tabù. Allo stesso tempo abbiamo affidato ai “rivoluzionari” del settore privato il ruolo di alfieri del benessere, della ricchezza e della prosperità. Il boom di Internet ha contribuito ad alimentare questa visione del mondo. L’industria, ormai considerata vetusta, ha lasciato spazio al settore dei servizi.
A una quarantina d’anni dal consolidamento di questo paradigma, l’unico che la nostra generazione abbia conosciuto, è tempo di trarne un bilancio. Le disuguaglianze economiche si sono ampliate, la “mobilità” sociale si è bloccata, la finanza ha inghiottito la politica, il welfare State è stato vittima dell’austerità. Il capitalismo finanziario incentrato sui servizi si è dimostrato instabile e incapace di garantire una prosperità condivisa. La politica industriale, fra i pilastri del benessere diffuso del secondo dopoguerra, si è ridotta all’erogazione di agevolazioni al settore privato, specialmente alla grande impresa. La pandemia ha però messo a nudo i limiti di tale paradigma, spazzando via decenni di mistificazione e dogmatismo circa il ruolo dello Stato. È compito della nostra generazione progettare un’alternativa.
Per attenuare una crisi che si infrange contro un sistema di per sé fragile, è necessario riportare la politica industriale dove è naturale che sia: al centro del dibattito politico.
Negli anni ‘60 i nostri nonni immaginavano viaggi nello spazio, terapie rivoluzionarie per il cancro, macchine volanti. Che abbiamo ottenuto noi invece? Netflix, Twitter e un rider sfruttato che ti porta una pizza ordinata da un’app.
Il cambio di paradigma che abbiamo qui delineato deve passare attraverso un ripensamento dello Stato, da Leviatano inefficiente a “stratega”. Ripensare la politica industriale, andando oltre certi stereotipi, è uno dei capisaldi dell’economia che verrà e che vogliamo costruire.
Oggi il sostegno all’industria si limita all’elargizione di sussidi, senza un indirizzo strategico alla base. Essi sostengono un sistema strutturalmente in crisi, con una produttività stagnante, aziende che non contribuiscono alle dinamiche innovative, esposte a una concorrenza estera predatoria.
La politica industriale può essere riorientata lungo le linee dei cosiddetti Mission Oriented Projects, assecondando la cooperazione dello Stato coi privati in un ecosistema mutuamente vantaggioso.
A tal fine, serve dotarsi di un fondo statale orientato su più fronti sulla falsariga di quello proposto da John Van Reenen, indirizzando le risorse in parte verso grandi imprese e i settori strategici, e in parte verso la piccola e media impresa, per alimentare una polifonia di forme industriali. È infine necessario puntare sulle idee delle nuove generazioni, finanziando start-up innovative.
Serve quindi reindirizzare noi giovani, cresciuti con lo smartphone in mano, verso la macchina pubblica, rovesciando il paradigma dello “Stato inefficiente” e amministratore residuale piuttosto che attore protagonista.
Politica industriale e globalizzazione
Senza tener conto delle principali sfide della contemporaneità non è possibile articolare una politica industriale intelligente e lungimirante, volta a favorire l’inserimento nel mercato del lavoro e la partecipazione dei giovani a un’idea di Paese.
La narrativa convenzionale ha posto l’accento sulle implicazioni puramente economiche della globalizzazione, enfatizzando la “grande convergenza” che ha favorito soprattutto le economie emergenti. Mentre un mondo multipolare si profila all’orizzonte in quello che viene descritto come il “secolo dell’Asia”, occorre ripensare una politica industriale fondata sulla resilienza che consenta, dunque, di gestire la globalizzazione senza rischiare di subirne passivamente gli effetti.
Un’idea di Italia sovrana, ma aperta alla cooperazione economica e volenterosa di contribuire alla convivenza pacifica tra gli Stati mediterranei, potrebbe costituire il fulcro di una missione nazionale di rilancio dopo la crisi pandemica. Una rinnovata pedagogia nazionale potrebbe fornire la direttrice per lo sforzo corale necessario a risollevare le sorti dell’economia italiana e uscire dalle secche di un clima di generale sfiducia, che spinge molti giovani a fuggire all’estero.
Tre potrebbero essere le strade di questo nuovo corso di politica industriale con lo sguardo proteso allo scenario internazionale:
- il recupero e la rivisitazione di un modello di industria peculiare, attento al tema della sostenibilità sociale, ispirato agli esempi di Enrico Mattei e Adriano Olivetti, sotto l’egida dell’intervento statale;
- una visione strategica volta ad attuare l’integrazione socio-economica dei lavoratori stranieri e sostenere i Paesi emergenti dell’Africa del Nord e subsahariana, per promuovere lo sviluppo economico ed evitare che i potenziali emigranti siano costretti a fuggire dalle comunità di origine;
- una politica energetica che tenda all’autosufficienza e tracci la rotta verso la transizione ecologica.
Questione ambientale e politica industriale: ossimoro o sfida?
La crisi pandemica ha indebolito le tesi di chi enfatizza esclusivamente il ruolo del privato nei fenomeni di sviluppo e innovazione, svelando come ancora una volta l’azione dello Stato sia stata fondamentale nella dinamizzazione di tali processi secondo l’interesse della collettività (si veda l’immagine sottostante).
La ragione è presto detta. Il processo di realizzazione dei vaccini richiede tempo ed è tutt’altro che certo: in altre parole, non è un investimento profittevole. E’ precisamente per questa ragione che l’azione dello Stato come volano di sviluppo è necessaria: per investire là dove il privato non si spinge, assumendosi rischi altrimenti insostenibili da chi persegue meramente la logica del profitto, e indirizzando ricerca e sviluppo tecnologico verso scopi di rilevanza collettiva. Come spiega Mariana Mazzucato, una volta che i rischi dell’investimento sono minimizzati grazie all’azione del pubblico, è normale che vi sia un effetto di “crowding in” per il privato, come avvenuto nel caso del vaccino Covid.
Dopo la crisi pandemica si dovrà affrontare la sfida di uno sviluppo socio-economico compatibile con i limiti ecosistemici. Non si può prescindere dalla consapevolezza che non sarà possibile disegnare la politica industriale sulla base di un meccanismo lineare (estrazione, trasformazione, consumo, rifiuto) al quale imprimere sempre maggiore velocità attraverso la crescita indefinita del consumo privato. Tale prospettiva non è più sostenibile né per l’ambiente, né, prima ancora, per l’uomo.
D’altra parte configurare industria e ambiente come due concetti antitetici contribuisce ad affermare nell’immaginario collettivo messaggi semplicistici che finiscono per aggravare il problema. Ad esempio, si radicano sempre più posizioni che vedono nella “dematerializzazione” dell’economia l’unica via percorribile.
Il messaggio che viene veicolato è spesso funzionale a celare dietro a un velo etico-green un processo di progressiva deindustrializzazione, che, peraltro, contribuisce all’instabilità sul piano sociale e politico. La semplice esternalizzazione di produzioni inquinanti o poco sostenibili verso aree tecnologicamente meno avanzate ma economicamente più convenienti rappresenta solo un palliativo: in termini aggregati le implicazioni per l’ecosistema rischiano di essere persino peggiorative.
La semplificazione in merito alla questione ambiente-politica industriale spesso si basa anche su un “ottimismo tecnologico”: l’idea cioè che si possa continuare nel business as usual confidando su miglioramenti tecnologici che consentirebbero di fare di più con meno. Se da un lato la ricerca dell’efficienza e lo sviluppo tecnologico, specie se orientati al perseguimento dell’interesse collettivo, dovranno svolgere la loro parte, essi da soli non possono garantire nulla e anzi rischiano di peggiorare la situazione (pensiamo al cosiddetto “effetto rimbalzo” di cui parla Van Der Bergh, fra gli altri).
Per affrontare le problematiche derivanti dall’attuale rapporto tra economia ed ecosistema sarà necessario un profondo processo di trasformazione socio-economica, al quale la nuova politica industriale dovrà necessariamente contribuire. Un tale cambiamento richiederà un approccio trans-disciplinare maturo e responsabile, che dovrà guardarsi da un lato da narrative fuorvianti e semplicistiche come quelle sopra descritte, e dall’altro dovrà farsi carico delle mutate condizioni e delle nuove sfide.
Riprenderci il presente per ripensare il futuro
Per creare un’economia che funzioni anche per le nuove generazioni, non basta stanziare fondi aggiuntivi per i giovani. Bisogna cambiare la prospettiva con cui si guarda la realtà. Bisogna osare, pensare in grande. Ribaltare i paradigmi con i quali siamo stati educati a pensare, e costruire una visione diversa, a partire dalla concezione che abbiamo della sfera pubblica.
Già agli inizi del Novecento, John Maynard Keynes scriveva:
“Le cose da fare più importanti dello Stato non riguardano le attività che i singoli individui già svolgono, ma le funzioni che cadono al di fuori della sfera dell’individuo, le decisioni che, se non assume lo Stato, nessuno prende. Importante per il governo non è fare le cose che gli individui stanno già facendo, e farle un po’ meglio o un po’ peggio, ma fare le cose che al presente non vengono fatte per niente”.
“La Fine del Laissez Faire” (1926)
Dopo quasi un secolo, le vicende pandemiche e le sfide future ci suggeriscono quanto questa analisi sia ancora tremendamente attuale. Come giovani, perciò, reclamiamo una politica industriale che sia volano dello sviluppo e dell’occupazione.
Hanno collaborato per Kritica Economica: Alessandro Bonetti, Riccardo D’Orsi, Francesco Laureti, Matteo Lipparini, Mattia Marasti, Andrea Muratore