Dalla rubrica, Il lavoro delle donne
Proponiamo qui un estratto del volume Lavoro apolide, a cura di Renata Semenza e Anna Mori .
L’aspetto forse più evidente del fenomeno della sottoccupazione è la diminuzione delle ore lavorate. Il passaggio all’economia dei servizi e, soprattutto, l’uso delle tecnologie digitali hanno favorito la diffusione di attività lavorative a tempo parziale, a orario ridotto o anche molto ridotto (qualche ora a settimana). L’occupazione a tempo pieno rispetto al 2008 è diminuita di quasi 900 mila unità.
Anche in seguito alla crisi economica, non soltanto è aumentato il numero dei lavoratori occupati a tempo parziale (con una larga prevalenza femminile), ma è cresciuta la componente di occupati part-time involontari, cioè coloro che sarebbero disponibili a offrire più ore di lavoro retribuito, se ci fosse. La quota di lavoratori part-time involontari è aumentata anche in Spagna, in Gran Bretagna e negli Stati Uniti. A livello globale, una donna su cinque lavora a tempo parziale e in Europa il rapporto è di circa una donna su tre. In Germania, per esempio, l’incremento dell’occupazione femminile degli ultimi quindici anni è dovuto alla crescita del lavoro part-time. Una parte significativa del divario retributivo fra donne e uomini (gender pay-gap) è ricollegabile alle differenze nelle ore lavorate, considerando che l’occupazione part-time è, per il 90% e più, femminile.
Le condizioni di lavoro part-time difficilmente sono vantaggiose, in particolare in una prospettiva di lunga durata. In primo luogo, perché il lavoro part-time ha una retribuzione oraria inferiore rispetto al tempo pieno. Esiste una penalità salariale oraria per il lavoro a tempo parziale. In secondo luogo, gli occupati sono più facilmente inseriti in attività lavorative di peggiore qualità, che offrono cioè poca formazione e pochi diritti legali. Anche nelle occupazioni qualificate, il passaggio al regime part-time risulta penalizzante. Inoltre, il contratto di lavoro part-time può essere una trappola, nel senso che diventa una condizione permanente, mentre dovrebbe essere concepito come uno strumento reversibile e una misura di flessibilità, a cui sia la domanda sia l’offerta possano accedere in determinate situazioni, riguardanti particolari esigenze legate al ciclo produttivo o a situazioni familiari contingenti, come la maternità.
Contestualmente, sono cresciute in modo esponenziale le ricompense orarie nelle professioni dove il prolungamento dell’orario rappresenta la norma (studi legali, settore della consulenza). Dunque, anche il tempo di lavoro è allocato in modo molto diseguale fra gli occupati, non soltanto fra donne e uomini, ma anche fra i settori di attività e i livelli professionali. All’interno della stessa società vi sono individui che lavorano troppo e individui che lavorano troppo poco.
In sintesi, se consideriamo la forte presenza di lavoro part-time involontario, il basso livello di occupazione e l’elevato livello di inattività, possiamo affermare che l’Italia ha un ampio potenziale di crescita dell’occupazione non utilizzato.
Alla diminuzione delle ore lavorate, come indicatore di sottoccupazione, si somma la proliferazione di contratti temporanei e di breve durata (non superiori a 91 giorni) che, secondo le stime dell’InPs sono il 64% del totale dei contratti a tempo determinato, oltre alle altre forme contrattuali saltuarie (il lavoro a chiamata, il lavoro intermittente, il lavoro autonomo occasionale). Sono diminuiti i rapporti di lavoro a tempo indeterminato, mentre sono cresciuti quelli con carattere discontinuo. Gli occupati con un contratto di lavoro temporaneo in Italia sono oggi più di tre milioni. Il contratto temporaneo è la forma prevalente di assunzione in tutte le fasce di età, non solo strumento di primo ingresso nel mercato del lavoro dei giovani.
Rientrano in questa categoria i cosiddetti gig worker, che in Italia si stima siano circa 200 mila (InaPP 2019). La gig economy è espressione della frantumazione dell’attività lavorativa e della decomposizione delle competenze professionali. Accanto alla vendita – via piattaforma digitale – di servizi fisici di basso livello di qualificazione (dove più di un quarto vende servizi domestici e di pulizia, e un altro quarto sono autisti alla Uber o driver che consegnano pasti a domicilio), vi sono tutte le prestazioni di servizi immateriali, dalle microattività come il data entry, alle attività più complesse come le traduzioni.
Si parla anche di “lavoro contingente”, che negli Stati Uniti si stima essere circa del 15%, cui è attribuibile una larga parte della crescita dell’occupazione (Katz, Krueger 2016). Una fetta di lavoro contingente è annidata nelle piattaforme digitali di micro-task. Una delle prime grandi indagini comparative realizzata sui 3.500 crowdworker operanti in 5 piattaforme digitali di lingua inglese, distribuiti in 75 paesi del mondo (ILo 2019), conferma che i lavoratori – ancora una minoranza, ma in crescita – sono considerati autonomi (con l’effetto di privarli delle tutele del diritto del lavoro e della previdenza sociale) e che le condizioni di lavoro (come e quando saranno pagati, come sarà valutato il lavoro e quali possibilità di ricorso hanno o non hanno i lavoratori quando le cose vanno male), sono riportate nei “termini di servizio” delle piattaforme, necessariamente da accettare per iniziare l’attività. Anche in questo caso sono lavoratori istruiti (il 78% ha almeno un diploma universitario), che guadagnano tra i 3 e i 4 dollari all’ora, molto al di sotto del salario minimo nei paesi in cui esiste, come Germania e Stati Uniti. I bassi introiti sono anche dovuti al tempo impiegato per cercare lavoro. I lavoratori esprimono uno stato costante di sottoccupazione e più di un terzo dipende economicamente esclusivamente da queste attività (micro-task) in gran parte semplici e ripetitive: risposte a sondaggi e partecipazione a esperimenti (65%), aggiornamento di contenuti dei siti web (46%), raccolta dati (35%), trascrizione (32%). Attività che non collimano con i loro livelli elevati di istruzione.
In Italia la sottoccupazione si inquadra in un mercato del lavoro assai fragile, oltre che particolarmente iniquo per gli effetti perversi della distribuzione del lavoro fra le categorie della popolazione.
Pensiamo alla quota importante di “economia non osservata”, come la definisce l’Istat riferendosi al sommerso economico e alle attività illegali, che costituisce 12,4% del PIL. Di questa fetta rilevante dell’economia italiana il 37% proviene dal lavoro irregolare e nero di cui quasi la metà (47%) si annida nel settore dei servizi.
Pensiamo alla crescita economica e occupazionale, segnata dai grandi divari territoriali che tendono ad allargarsi a sfavore delle regioni del Mezzogiorno. Da notare che nella fase post-crisi economica stanno aumentando le disparità socioeconomiche fra le regioni interne a ciascun paese, mentre è in corso un processo di convergenza crescente fra i paesi dell’Unione europea (Eurofound 2019), decisamente più pronunciato che nel passato, perché sostenuto da dinamiche demografiche e dell’istruzione assai simili.
Questa tendenza conferma che la ripresa economica si è distribuita in modo molto diseguale fra le regioni e non ha interessato tutti i cittadini in modo uguale.
Come sappiamo, persistono inoltre forti squilibri nella divisione di genere del lavoro. Uno degli sprechi più evidenti è che ancora oggi in Italia circa una donna su due è fuori dal mercato retribuito. Sulla struttura dell’occupazione femminile agiscono fattori di discriminazione che ricadono sulla disparità salariale e sulla segregazione orizzontale – che vede una forte concentrazione femminile in pochi settori di attività economica (generalmente svalutati socialmente e peggio retribuiti) – e verticale – che indica le minori probabilità per le donne di arrivare ai vertici delle organizzazioni.
In sintesi, anche senza considerare i mali che storicamente affliggono il mercato del lavoro italiano e le complesse tendenze sottostanti, oggi abbiamo a che fare con una riduzione degli occupabili nelle fasce centrali di età; creiamo più lavoro discontinuo o di bassa qualità, nonostante il sostegno pubblico (nel quadriennio 2015-2018 si sono spesi 73 miliardi per agevolazioni contributive) e abbiamo una cattiva allocazione del lavoro fra le componenti della popolazione.
I mercati del lavoro dell’Europa meridionale appaiono complessivamente più fragili di altri nell’era post-crisi, segnati da tassi di disoccupazione superiori alla fase che ha preceduto la recessione. Le ragioni di tale debolezza sono complesse e non esclusivamente di natura economica ma, anche in paesi come la Spagna, che ha avuto una ripresa importate, sono da ricercarsi nei bassi investimenti fatti, nell’inadeguatezza dei servizi per l’impiego e nel sistema di istruzione. Circa il 40% dei disoccupati lo sono da più di un anno e avrebbero bisogno di programmi mirati di riqualificazione per rientrare nel mercato. Le imprese offrono minori opportunità di formazione professionale di quanto non avviene in Germania o in Olanda. L’alta disoccupazione, concentrata in modo abnorme tra i giovani, riflette anche il tratto caratteristico del mercato del lavoro nel Sud Europa, in cui una parte relativamente consistente di lavoratori entrano ed escono da contratti temporanei. Lo stile diffuso fra gli imprenditori è di rispondere alla recessione tagliando i salari o non rinnovando i contratti a termine.
La distanza con una larga parte di paesi europei mette in luce che gli effetti negativi della crisi economica potevano essere prevenuti con politiche per l’occupazione e investimenti mirati nella formazione di nuove qualifiche e profili professionali competitivi. Lo stesso vale per la disoccupazione giovanile, fenomeno trasversale ai paesi europei (a eccezione di Austria e Germania, dove la disoccupazione è sostanzialmente equidistribuita fra le fasce della forza lavoro, grazie alla presenza di sistemi integrati di formazione e lavoro che facilitano l’ingresso dei giovani nel mercato) che, grazie a una serie di programmi di sostegno al lavoro giovanile ben gestiti (Youth Guaran- tee) ne hanno ridotto l’entità in modo significativo. Non si tratta quindi di ostacoli ineludibili o di obiettivi irraggiungibili, poiché di fronte a una situazione simile di recessione economica, i governi europei hanno reagito in modo molto diverso, ottenendo in alcuni casi buoni risultati e in altri casi dei risultati modesti o nulli.
La strategia auspicabile non è tanto quella di moltiplicare le riforme del lavoro (il Jobs Act in Italia non ha certamente contribuito a migliorare la situazione occupazionale, al netto del sostegno pubblico che, attraverso le ingenti agevolazioni contributive ha incentivato le assunzioni a tempo indeterminato per i primi tre anni dall’emanazione della legge), quanto di fare aumentare la domanda di lavoro qualificato, investendo nei settori più produttivi e innovativi dell’economia.