Nell’ampio dibattito sulle cause del declino economico italiano, le tesi più accreditate sono l’adozione della moneta unica [1], la debolezza della nostra architettura istituzionale [2], l’alto debito pubblico [3] e, infine, la rigidità del mercato del lavoro [4].
Al contrario di queste interpretazioni dominanti che imputano il declino sostanzialmente ad una singola causa, ritengo che lo stesso interessi tutte le componenti della domanda aggregata e che il principale indicatore sia quello della continua riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro. Il declino economico del nostro Paese, pur avendo una traiettoria di lungo periodo [5], [6], ha trovato la sua massima manifestazione a partire dagli anni ’90, con l’avvio di una politica di moderazione salariale all’interno di un contesto di forte consolidamento fiscale caratterizzato da (i) riduzione della spesa pubblica, (ii) aumento della tassazione verso i redditi più bassi e (iii) e svuotamento dello Stato tramite le privatizzazioni.
La politica di moderazione salariale è stata implementata con l’obiettivo di combattere l’inflazione e abbassare i costi di produzione per aumentare la competitività a livello internazionale delle imprese italiane per favorire l’export. Questa policy, portata avanti indistintamente da tutti i governi italiani dal ’92 ad oggi, si è basata su tre interventi: (i) l’eliminazione della scala mobile; (ii) la riforma del modello contrattuale e (iii) la flessibilità del mercato del lavoro.
La scala mobile, un meccanismo che permetteva la difesa del potere d’acquisto dei salari adeguandoli automaticamente all’aumento del tasso di inflazione, era stata già indebolita dal cosiddetto “Decreto di San Valentino” del 1984. Nel 1992, la scala mobile viene eliminata con il Protocollo Amato del 31 luglio – firmato da Governo, organizzazioni sindacali e datoriali – con l’obiettivo di neutralizzare la dinamica salariale originata dalla spirale prezzi-salari. In realtà, già dagli anni ’80 l’inflazione italiana aveva cambiato natura: infatti, non era più un’inflazione salariale bensì si trattava di inflazione importata, inflazione da prezzi amministrati e inflazione da tassi di interessi [7].
Nel 1993, con il Protocollo Ciampi del 23 luglio – sottoscritto tra governo, organizzazioni sindacali e datoriali – ha modificato la struttura del modello contrattuale, istituendo due livelli: nazionale e decentrato. In quell’accordo si indicava l’obiettivo di riduzione dell’inflazione attraverso una moderazione salariale accompagnata da una politica dei redditi, dall’aumento degli investimenti e dall’incremento della produttività. Nei fatti, però, quell’accordo è stato disatteso da governo ed imprese che sono venuti meno ai propri impegni, soprattutto in tema di investimenti. In questo modo, si sono gettate le prime basi per spingere gradualmente la contrattazione collettiva dal livello nazionale verso quello decentrato [8]. Questa decisione, in un sistema produttivo composto al 95% da microimprese [9] caratterizzato da una scarsa diffusione della contrattazione decentrata [10], ha dato ulteriore impulso al calo della quota salari sul PIL.
La flessibilità nel mercato del lavoro è stata introdotta attraverso diversi interventi legislativi quali il Pacchetto Treu del 1997, la riforma del contratto a tempo determinato del 2001, la riforma Biagi del 2003, la Riforma Fornero del 2012 e il Jobs Act del 2014. Queste riforme hanno aumentato la libertà delle imprese di assumere con contratti atipici e di licenziare più facilmente rispetto al passato. Appare, quindi, poco fondata la diffusa convinzione che la produttività del lavoro in Italia sia più bassa, in comparazione con gli altri Paesi europei, perché vi sarebbe un’eccessiva protezione del lavoro.
L’Italia, infatti, dal 1985 al 2013 ha ridotto il suo Employment Protection Legislation Index (EPL), ovvero quel complesso indice elaborato dall’OCSE che indica la maggiore o minore flessibilità nel mercato del lavoro. Difatti, la parte dell’indice relativa alla protezione dei contratti a tempo determinato (EPT) è passata dal 5,25 del 1985 al 2,00 del 2013, mentre quello relativo alla protezione dei contratti a tempo indeterminato (EPRC) è rimasto invariato al 2,76 per tutto il periodo considerato mentre è sceso al 2,68 nel 2013.
Fig. 1 – Indici EPT e EPRC (1985-2013). Elaborazione propria su dati OECD
Insomma, l’Italia ha introdotto flessibilità nel mercato del lavoro in maniera molto più veloce e profonda degli altri Paesi OCSE [11], [12]. Il collasso avviene proprio dopo la riforma del 1997, che ha introdotto nuove figure contrattuali a tempo determinato, e la riforma del 2001, che ha eliminato i limiti all’eccezionalità del rapporto di lavoro a tempo determinato.
Questa articolata linea di moderazione salariale ha colpito negativamente i salari e il loro potere d’acquisto. Infatti, la caduta dei salari reali, in assenza di investimenti pubblici – causati da un contesto di consolidamento fiscale – ha agito come disincentivo agli investimenti privati nell’innovazione [13], [14] incidendo negativamente sulla produttività e sulla specializzazione produttiva, in particolare nel Mezzogiorno [15]. La compressione dei salari contribuisce a peggiorare le aspettative delle stesse imprese perché il salario in un sistema capitalistico svolge un doppio ruolo [16], [17], [18], [19]: è un costo di produzione per le imprese ma è anche parte della domanda aggregata attraverso i consumi.
Questo ha condotto il nostro Paese su un cammino caratterizzato da una riduzione dei consumi dovuta ad un calo dei salari che, non essendo stata compensata né da un aumento degli investimenti privati né da un aumento della spesa pubblica, ha portato alla diminuzione della domanda aggregata [20], [21], [22]. Questo, per conseguenza, ha ulteriormente accresciuto l’occupazione precaria e il tasso di disoccupazione. Neppure sembra aver funzionato l’effetto atteso della moderazione salariale sulle esportazioni nette [23].
È, quindi, necessario avviare una riflessione complessiva sulla questione occupazionale e salariale in termini politici [24] che, partendo dall’ipotesi di Stato come occupatore di ultima istanza [25] ed innovatore di prima istanza [26], ripensi nuove forme di intervento pubblico in economia che aumentino la produttività del lavoro, puntino alla buona occupazione e contribuiscano allo sviluppo economico.
Riferimenti bibliografici
[1] A. Bagnai, Il tramonto dell’euro. Come e perché la fine della moneta unica salverebbe democrazia e benessere in Europa. Reggio Emilia: Imprimatur, 2016.
[2] A. Macchiati, Perché l’Italia cresce poco. Bologna: Il Mulino, 2016.
[3] A. Alesina e F. Giavazzi, «Le favole da evitare sul debito pubblico», Corriere della Sera, 2018. [In linea]. Available at: https://www.corriere.it/economia/18_gennaio_11/favole-evitare-debito-pubblico-campagna-elettorale-f418b50a-f63f-11e7-9b06-fe054c3be5b2.shtml.
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[5] M. De Cecco, «Una crisi lunga mezzo secolo: le cause profonde del declino italiano», Econ. Ital., vol. 3, pagg. 69–92, 2012.
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[8] G. Forges Davanzati e N. Giangrande, «Gli effetti della contrattazione decentrata su salari e produttività», Quad. di Rass. Sind., vol. 4, pagg. 155–179, 2017.
[9] A. Ricci e L. Tronti, «Il ruolo della contrattazione e delle istituzioni del mercato del lavoro», in Il mercato rende diseguali? La disuguaglianza dei redditi in Italia, M. Franzini e M. Raitano, A c. di Bologna: Il Mulino, 2018, pagg. 253–276.
[10] L. Birindelli, «Contrattazione integrativa e retribuzioni nel settore privato», Roma, 2016.
[11] G. Forges Davanzati e L. Mongelli, «Does rising unemployment lead to policies of labour flexibility? The Italian case (1990-2013)», Econ. Lav., vol. 3, pagg. 15–28, 2018.
[12] S. Perri e R. Lampa, «When small-sized and non-innovating firms meet a crisis: Evidence from the Italian labour market», PSL Q. Rev., vol. 71, n. 284, pagg. 61–83, 2018.
[13] A. Kleinknecht, «How “structural reforms” of labour markets harm innovation», 2015.
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[15] R. Bronzini, L. Cannari, A. Staderini, L. Conti, L. D’Aurizio, A. Fabbrini, A. Filippone, G. Ilardi, G. Iuzzolino, P. Montanaro, M. Paccagnella, V. Pellegrini, e e R. Santioni, «L’industria meridionale e la crisi», Quest. di Econ. e Finanz., vol. 194, 2013.
[16] A. Bhaduri e S. Marglin, «Unemployment and the real wage: the economic basis for contesting political ideologies», Cambridge J. Econ., vol. 14, pagg. 375–393, 1990.
[17] E. Hein, «The Bhaduri-Marglin post-Kaleckian model in the history of distribution and growth theories: an assessment by means of model closures», Rev. Keynes. Econ., vol. 5, n. 2, pagg. 218–238, 2017.
[18] M. Kalecki, «The Marxian equations of reproduction and modern economics», Soc. Sci. Inf., vol. 7, n. 6, pagg. 73–79, 1968.
[19] M. Kalecki, «Class Struggle and the Distribution of National Income», Kyklos, vol. 24, n. 1, pagg. 1–9, 1971.
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[21] P. Tridico, «From economic decline to the current crisis in Italy», Int. Rev. Appl. Econ., vol. 29, n. 2, pagg. 164–193, 2015.
[22] L. Tronti, «La crisi di produttività dell’economia italiana: scambio politico ed estensione del mercato», Econ. Lav., vol. 2, pagg. 139–157, 2009.
[23] A. Felettigh e S. Federico, «Measuring the price elasticity of import demand in the destination markets of Italian exports», Econ. e Polit. Ind., vol. 38, n. 1, pagg. 127–162, 2011.
[24] M. Kalecki, «Political Aspects of Full Employment», Polit. Q., vol. 14, n. 4, pagg. 322–330, 1943.
[25] F. Caffè, La solitudine del riformista. Bollati Boringhieri, 2016.
[26] R. Bellofiore e G. Vertova, «Neoliberismo, ecosistema e sistemi nazionali di innovazione: verso uno Stato innovatore di prima istanza», La Riv. delle Sci. Soc., vol. 4, pagg. 211–221, 2014.