Ripreso da “Lo straniero”, n. 17, settembre 2001.
Cosa è successo tra le pieghe delle giornate genovesi? La vera novità non sono state le mediazioni politiche fra le varie anime del Genoa Social Forum o il confronto tra i portavoce di questo e la sinistra ufficiale (partitica o sindacale). La vera novità non è rappresentata dagli show mediatici di pochi leaderini che hanno spesso abusato dello spazio concesso, o dall’istinto all’autorappresentazione (troppe volte autorefenziale) di componenti storiche della società civile italiana. Ben al di là di tutto questo, a Genova si è realizzato un incontro tra una parte di giovani e giovanissimi europei non eterodiretti, intenti a manifestare attivamente il proprio morale “io non ci sto”, e quel poco di buono delle società italiana ed europee che ultimi quindici anni ha provato – nel volontariato, nei gruppi di base, nel giornalismo impegnato e squattrinato, in alcune operazioni di cooperazione nord-sud del mondo, nei progetti di economia “informale”, nell’ecologismo, nel pacifismo, nel femminismo… – a ideare e a percorrere strade alternative a quelle della politica ufficiale.
I modi di questo incontro hanno risvegliato il “seme sotto la neve” della società europea. Questo embrione transnazionale dalle molte lingue (a Genova si è parlato in italiano quanto in francese, in spagnolo, in inglese), a sua volta minoritario all’interno dell’happening ligure e ancora fortemente disgregato, costituisce l’aspetto più interessante di questo nascente movimento. Dalle sue capacità di azione pratica e di crescita teorica, di avviare un confronto non supinamente accettato con le regole della politica, di attingere dalle pratiche libertarie e femministe più che da quelle classicamente “novecentesche”, di sviluppare una coscienza sempre più globale e universalizzabile (kantianamente universalizzabile: nella progettazione di iniziative politiche che tengano conto degli sviluppi transnazionali e che soprattutto abbiano sempre come pietra di paragone il calcolo delle conseguenze “per tutti gli individui” di quello che si richiede), dipende la possibilità di allargamento delle idee e delle pratiche più innovative del movimento per una giusta globalizzazione.
Questo “seme sotto la neve” non ha vinto; anzi, schiacciato dall’irrigidimento del movimento successivo agli scontri di piazza, è fortemente in pericolo. Vecchi corvi della politica lo osservano attentamente, esperienze usurate cercano di inglobarlo al fine di rigenerarsi, quasi tutti i media non lo hanno raccontato, dal momento che non lo hanno minimamente percepito.
Questo “seme sotto la neve” ha davanti a sé un duro compito, quello di far sì che continuino ad aggregarsi le sue molecole sparse; in forme nuove, in pratiche diffuse e quotidiane.
Liberati da un tabù
Per almeno le ultime tre generazioni, quelle degli anni Ottanta e Novanta, i discorsi circa la possibilità di cambiare il mondo sono stati un tabù: in seguito alla castrazione (e in particolare autocastrazione) delle generazioni che ci hanno preceduto tali propositi erano stati archiviati nel vecchio baule dei ricordi. Nell’ultimo decennio chi ha deciso di impegnarsi nelle poche possibilità di engagement ancora non usurate è cresciuto nell’intima convinzione che “la Storia fosse finita”, o meglio che lo stesso concetto di Storia fosse una truffa, che i giochi fossero già chiusi, che la politica fosse mera e rozza e violenta e corrotta gestione di un potere poco modificabile, che non rimanesse altro da fare che collocarsi ai margini e, in tali margini, organizzare piccole e circoscritte attività nell’ambito del “sociale”: se non possiamo cambiare il mondo, almeno proviamo a costruire a margini del sistema delle piccole isole liberate.
Tale approccio però si è spesso rovesciato in una adesione al “particulare” (della propria azione, del proprio gruppo, del proprio campo d’azione) talmente centrifuga da far perdere di vista orizzonti più lontani, da far ricusare la dovuta universalizzazione dei tempi e dei modi di ogni pratica: si è girati così alla larga dalla necessità di una spiegazione del mondo del quale il proprio campo d’azione è solo una piccola e determinata parte. Ciò è stato contrassegnato da una parte dal (giusto) rifiuto di ogni filosofia della storia “oggettiva” di impianto hegelo-marxiano, dall’altra dall’accettazione (solo in parte giusta) del relativismo quale regola del mondo.
Alla fine degli anni Novanta si è però constatato quanto fosse difficile creare isole libere senza porsi comunque il problema di come cambiare le regole del gioco complessive. Ma proprio nel momento in cui buona parte delle esperienze sviluppatesi nel corso degli anni Novanta (dai centri sociali all’associazionismo al terzo settore) si andavano usurando – parliamo innanzitutto dell’Italia, ma il discorso vale per buona parte delle società occidentali – è avvenuto qualcosa di nuovo. Nelle pieghe di queste esperienze, o addirittura al di fuori di queste, è emersa la voglia e la necessità di una critica globale. Negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia, tale nuovo sviluppo ha avuto corso molto prima che in Italia e ha avuto nei controvertici un’eccezionale cassa di risonanza. Genova da questo punto di vista è stata l’ultima tappa (italiana) di una serie nutrita e costante.
I controvertici degli ultimi due anni hanno avuto il merito di amalgamare e di far crescere in autoconsapevolezza quanti hanno percepito la necessità di questa critica globale. Poco alla volta, è riemerso il desiderio di criticare i massimi sistemi, di pensare in che termini e in quali modi si può constrastare o corrodere l’attuale ordine mondiale, senza passare attraverso la presa del potere o la variante più soft della discesa in politica (pratiche entrambi ritenute fallimentari perché inquinata dall’utilizzo della violenza e dall’adozione di logiche militari – la prima, perché facilmente recuperabile alle regole maggioritarie del sistema occidentale – la seconda). Poco alla volta si è compreso che poteva esserci una critica globale senza ricadere nella teleologia, che si poteva separare l’idea (astratta e reazionaria) di Storia da quella (concreta e indispensabile) di mondo.