Università di Torino

Pubblichiamo qui di seguito un estratto dal saggio di Giacomo Pisani contenuto nel volume a cura di Luca Cigna Forza Lavoro! Ripensare il lavoro al tempo della pandemia, Milano, Fondazione G. Feltrinelli, 2020.


La pandemia da Covid-19 è stata, per l’Italia e non solo, una cartina al tornasole, che continua a disvelare le linee di confine che innervano le nostre società, determinando gerarchie, fenomeni di esclusione e marginalizzazione, vulnerabilità.

Attraversare l’emergenza non è per tutti la stessa cosa. Per alcuni è una guerra spietata, da combattere scavando al fondo delle proprie risorse fisiche e psichiche. Sembra la guerra di tutti contro tutti di hobbesiana memoria, una situazione dai contorni primordiali che ci porta al di qua del moderno.

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La prima fase dell’emergenza da Covid-19 ha del tutto disarticolato le coordinate su cui si è andato costruendo, non solo in Italia, il processo di mediazione fra la necessità di garantire la sicurezza sociale delle persone e la preservazione della stabilità del mercato. Tali vettori, sul cui difficile compromesso si è retta l’edificazione dei grandi schemi di protezione sociale nel secolo scorso, sono stati trasposti su un nuovo campo di forze, che li ha messi fra loro in contrasto.
L’urgenza, infatti, di tutelare la salute pubblica, alla base del nostro ordinamento costituzionale, è entrata in rotta di collisione con le esigenze di un mercato alle prese col blocco della produzione e con la crisi di ordini e gerarchie consolidate. L’unico modo per frenare il contagio, infatti, con un sistema sanitario che ha sofferto i tagli ai servizi pubblici e al welfare degli ultimi anni e che ha già sfiorato il collasso, è stato quello di prolungare il distanziamento sociale, fino ad arrivare all’estremo del lockdown nazionale.

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Certo, si è trattato di una “protezione” assolutamente parziale. Innanzitutto, essa ha riguardato solo alcuni settori, come le suddette immagini ci hanno mostrato. Molti lavoratori della gig economy, lavoratrici di cura, freelance, lavoratori atipici e irregolari, lavoratori della logistica, ecc. hanno dovuto continuare a lavorare anche durante i mesi cruciali dell’emergenza, spesso in assenza di dispositivi e di misure di protezione di alcun genere.

Molte di queste categorie si trovavano in uno stato di totale insicurezza sociale già prima dell’inizio della pandemia, costrette a guadagnarsi da vivere in un mercato poco differente da quella giungla primordiale che richiamavamo all’inizio del presente intervento. Per queste persone, il rischio di contrarre l’infezione da Covid-19 ha rappresentato un rischio ulteriore, che ha arricchito la già folta schiera di rischi che costella la loro vita quotidiana. Per molti di loro la possibilità di rimanere a casa non sarebbe stata neanche concepibile, pena una condizione di ancor più marcata esclusione e deprivazione.

Dire “restare a casa”, infatti, non significa evocare un luogo “neutro” e “immune”, in cui possano considerarsi risolte le difficoltà e le contraddizioni che riempiono la vita quotidiana.

Per tanti stare a casa significa subire in maniera ancor peggiore la propria condizione di dipendenza e di bisogno, in assenza di sostegni e di fonti di reddito alternative.

In un momento in cui le disuguaglianze materiali sono ulteriormente amplificate, è dunque necessario assumere il welfare come campo di battaglia, per costruire un orizzonte comune in cui tutti possano vivere in maniera dignitosa quella “sospensione” a cui il virus ci sta costringendo.

Certo, il tema del sostegno al reddito è stato al centro del dibattito politico durante l’emergenza sanitaria, ma si è tradotto, col decreto Cura Italia, in una serie di dispositivi di natura categoriale. Il cosiddetto Reddito di Emergenza ha allargato il perimetro della protezione sociale, ma è stato fortemente ridimensionato dopo gli annunci iniziali del Governo. Se a fine aprile era stato ipotizzato lo stanziamento di 3 miliardi per un milione di famiglie, di fatto sono poi stati stanziati 1 milione di euro, che si sono tradotti in due tranche per un totale di 800 euro. Il premier Conte ha annunciato una ulteriore tranche a fine ottobre, con la riacutizzazione del contagio e l’attuazione di nuove misure di restrizione. Il dispositivo esclude in ogni caso troppi soggetti in condizione di bisogno, traducendosi in una misura emergenziale per famiglie povere, che non coglie fino in fondo l’urgenza di assicurare universalmente la possibilità di progettare il proprio futuro liberamente, al di fuori dei ricatti.

C’è forse la necessità, allora, di andare nella direzione esattamente opposta rispetto a quella imboccata dall’evoluzione del welfare negli ultimi anni. Se i dispositivi di sostegno al reddito si sono inseriti in una filosofia improntata sulla centralità inscalfibile del mercato, c’è oggi la necessità di allargare il raggio della protezione sociale, non solo rispetto alla platea dei beneficiari ma anche in relazione alle possibilità che essa sostiene e promuove.

[…]

È forse possibile, allora, riprendere quel movimento lungo di opposizione alla barbarie, che ha animato i grandi conflitti della modernità, allargando il campo del possibile. Si potrebbe, insomma, provare a scommettere sulla capacità trasformativa delle persone, innanzitutto riconoscendo la possibilità universale dell’autodeterminazione, attraverso l’introduzione di un reddito di base incondizionato, che allarghi la protezione sociale anche a quelle categorie che eccedono i confini della mediazione su cui ha poggiato l’edificazione del welfare novecentesco. Sono state tante le iniziative e le vertenze di questi mesi a sostegno di un dispositivo di questo genere. Basti pensare alla campagna dei movimenti sociali per un “reddito di quarantena”, o a quella del Bin (Basic Income Network Italia) per l’estensione in senso universale del reddito di cittadinanza con l’eliminazione delle condizionalità che esso prevede.
Un reddito di base permetterebbe di superare i limiti dei dispositivi di sostegno al reddito attualmente presenti in Italia, mettendo le persone in condizione di vivere dignitosamente tale fase di “emergenza”, rispettando il distanziamento, attualmente fondamentale per contenere il contagio. Inoltre, un dispositivo del genere getterebbe le basi per una revisione in senso universalistico della protezione sociale in Italia, scommettendo sulla solidarietà come principio alla base di un nuovo inizio oltre l’emergenza.


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