Storica e archivista

One Bridge to Idomeni

La onlus One Bridge to Idomeni (OBTI) nasce a Verona dopo il viaggio di un gruppo di ragazzi, nel marzo 2016, al campo profughi informale di Idomeni, sul confine greco-macedone. Il viaggio era motivato dalla necessità di capire cosa stesse succedendo e per cercare, in modo spontaneo, di portare aiuti alle persone migranti che percorrevano la rotta balcanica e si trovavano bloccate dalle nuove misure europee di chiusura dei confini.

Ciò che abbiamo trovato a Idomeni, e che continuiamo a trovare lungo la rotta balcanica, è l’Europa dei confini chiusi, dei respingimenti illegali e violenti, dei campi e del filo spinato. Non trovandoci d’accordo con quanto abbiamo visto, vediamo e viviamo, e non essendo d’accordo dunque con le politiche migratorie che l’Unione europea, e i suoi Stati, adottano e avvallano, abbiamo sentito forte il desiderio che le cose potessero essere diverse e abbiamo deciso di metterci in gioco per provare a cambiare le cose. Abbiamo provato a costruire una comunità ed uno stato di diritto sui confini europei, là dove le nostre democrazie mostrano le loro contraddizioni più eclatanti: nonostante siano fondate su carte universali dei diritti, difendono militarmente i confini, respingono le persone migranti e le stigmatizzano come irregolari, illegali, clandestine, nascondendole nei campi. Insomma, dimostrano che i diritti che ritengono fondamentali valgono solo per i propri cittadini e nella propria nazione.


Partire e tornare

Il progetto One Bridge to Idomeni ha sviluppato negli anni un aiuto costante lungo la rotta balcanica tramite due parole guida: Partire e Tornare. Partire per noi volontari significa portare aiuti di diverso tipo: materiali (scarpe, vestiti, zaini, sacco a peli, cellulari, …), ma anche finanziamenti per costruire progetti in loco o per finanziarne di già attivi. Tornare vuol dire riportare in città una testimonianza: chi torna, mostra i volti, la voce, le ingiustizie e i desideri di chi è costretto a vivere nei campi per rifugiati. Tornare vuol dire anche lavorare qui in Italia per sensibilizzare i cittadini o supportare coloro che, una volta attraversata la rotta balcanica, si stabiliscono in questo territorio.

Per fuggire l’assistenzialismo di un certo aiuto nei contesti d’emergenza, partire e tornare si implicano in un’azione politica: scostandoci dalla gentilezza e dalla pietà, difendiamo quei diritti – spesso dimenticati – che consideriamo necessari per una vita pienamente umana. OBTI lavora nei Balcani, dove sono stati attivati progetti in Grecia, Serbia e Bosnia ed Erzegovina, e a Verona, promuovendo incontri, formazioni e attività nelle scuole.


I progetti

Attualmente, abbiamo attivi tre progetti tra Grecia, Bosnia ed Erzegovina e Verona.

In Grecia (Corinto) e in Bosnia Erzegovina (Bihać) gestiamo, in collaborazione con altre tre associazioni (La Luna di Vasilika e Aletheia RCS in Grecia e U Pokretu in Bosnia ed Erzegovina), dei “community center”, ovvero dei luoghi aperti a tutti, in città, dove garantiamo servizi e diritti basilari alle persone bloccate nei campi di accoglienza governativi: formazione scolastica, distribuzione di cibo, supporto medico, supporto legale, internet point e luoghi di incontro e ascolto. Oltre ai servizi per le necessità di base o di primo intervento, vengono organizzate attività e laboratori (gruppi di cucina, tornei di calcio, bikesharing, arte dinamica) che puntano a coinvolgere insieme, sia nella partecipazione che nell’organizzazione, le persone migranti che risiedono nei campi, i volontari e gli abitanti locali.


Gli obiettivi

L’obiettivo di questi progetti, oltre ad offrire un minimo di servizi a sostegno dei diritti elementari che le istituzioni non garantiscono, è quello di generare degli spazi di condivisione, di coabitazione, dove le persone possano incontrarsi, conoscersi, condividere il tempo e dare vita a piccole comunità. Vogliamo superare l’approccio emergenziale dell’accoglienza che viene utilizzato nei campi, gestiti come luoghi di detenzione dove le persone perdono la libertà di gestione dello spazio e del tempo, dove si soddisfano solo i bisogni primari – e a volte nemmeno quelli – come se le permanenze fossero situazioni temporanee ed emergenziali. Le permanenze nei campi, invece, durano mesi e anni, le vite restano sospese e indeterminate e, allo stesso tempo, il territorio circostante, protetto dai muri e dalle recinzioni, resta indifferente e ostile.

Le persone migranti nei campi, come in molti centri di accoglienza in Italia, non possono abitare i territori e così è loro negata la possibilità di co-abitazione con gli abitanti locali. Attraverso i nostri progetti vogliamo, invece, provare a costruire queste possibilità di co-abitazione, dove, come spiega Donatella Di Cesare nel suo libro Stranieri residenti (Bollati Boringhieri, 2017), coabitare significa:

“[…] condividere la prossimità spaziale in una convergenza temporale dove il passato di ciascuno possa articolarsi nel presente comune in vista di un comune futuro”1

Infine, da pochi mesi, abbiamo iniziato a Verona un nuovo progetto che va oltre l’accoglienza di primo intervento: il corridoio umanitario. In collaborazione con la Comunità di S. Egidio, Cesaim, la comunità di cittadini di S. NicolòCombonifem ci occupiamo dell’accoglienza di una famiglia trasferita in Italia da un campo rifugiati in Grecia.

Abbiamo deciso di partecipare e sostenere questo progetto con due obiettivi. Il primo è la creazione di una rete di associazioni e cittadini che, condividendo pratiche e competenze, costruisca una comunità di accoglienza e promuova uno strumento, il corridoio umanitario, che rappresenta una delle poche vie sicure e legali per spostarsi e migrare. Siamo consapevoli che il corridoio umanitario non sia la soluzione alle migrazioni verso i nostri paesi, perché pochissime persone possono accedervi, ma rappresenta una possibilità. Il secondo obiettivo è quello di promuovere un’accoglienza che, come nei progetti di primo intervento, non sia impostata sull’assistenzialismo, ma che rispetti in pieno la libera autodeterminazione delle persone in arrivo. Accoglierle, per noi, non significa decidere per loro cosa dovranno fare o cosa è meglio, ma vuol dire fornire strumenti utili affinché le persone possano crearsi la propria autonomia, continuando il loro progetto migratorio.

I progetti che portiamo avanti nascono dall’impegno politico: vogliamo difendere i diritti di tutti di spostarsi, di costruire un futuro dove si vuole e tutelare la libera autodeterminazione. I diritti hanno in sé il seme dell’uguaglianza, se non sono applicati o riconosciuti completamente, o perfino negati, perdono valore e lo perdono per tutti.


[1] Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 255.

Condividi
La Fondazione ti consiglia
pagina 107370\