Non solo storia – Calendario Civile \ #Genova2001
Pubblichiamo qui di seguito un estratto dal saggio di Jacopo Custodi (Il cantiere delle idee), “Locale, nazionale e globale: la geopolitica a vent’anni dal movimento no-global” contenuto in Un altro mondo è ancora possibile? Lo spazio dell’alternativa vent’anni dopo Genova e Porto Alegre, Milano, Fondazione G. Feltrinelli, 2021.
La politica, a qualunque livello venga praticata, implica sempre una rappresentazione semplificata e schematizzata della realtà. Ma non si tratta necessariamente di banalizzazione: la realtà è così complessa e interconnessa che sarebbe impossibile fare altrimenti.
Da questo punto di vista, tutte le grandi categorie politiche, a partire da “destra” e “sinistra”, sono metafore, che semplificano il mondo per permetterci di capirlo e attivarci per cambiarlo.
Di fronte alla complessità del presente, fare politica richiede anche la capacità di saper offrire alle persone una sorta di “mappa” che, proprio come una carta geografica, descriva gli elementi più importanti e tralasci quelli secondari. è nello scegliere quali elementi siano importanti e quali no, e nel deciderecome descrivere quelli reputati importanti, che emergono le differenze politiche.
Questa breve premessa teorica ci permette di soffermarci sul primo aspetto innovativo del movimento no-global: l’utilizzo di nuove mappe per descrivere la politica internazionale, capaci di semplificarla senza perdere di vista le diversità di ogni popolo. La capacità che aveva il movimento no-global di schematizzare i conflitti globali – i popoli della Terra contro un manipolo di potenti a capo di multinazionali predatorie, Stati guerrafondai e finanza speculatrice – apriva infatti le porte a una nuova visione del mondo, più consapevole della sua pluralità e meno eurocentrica. I popoli (al plurale), ognuno con la propria cultura e diversità, uniti contro un avversario comune ma non per questo identici.
L’obiettivo era, per riprendere uno slogan degli zapatisti popolare in quegli anni, “Costruire un mondo che contenga molti mondi”: un mondo plurale e multipolare, in cui popoli diversi cooperino in pace, liberi dall’omogeneizzazione della globalizzazione neoliberista e dal pensiero unico (occidentale).
Non che il comunismo novecentesco fosse sordo alle differenze culturali dei popoli, ma certo la contrapposizione simbolica tra operai e borghesia applicata su scala planetaria favoriva una rappresentazione del proletariato mondiale in modo molto più omogeneo di quanto non fosse, per lo meno nelle interpretazioni più dogmatiche del marxismo. Si prenda, a titolo di esempio, un manifesto sovietico (Figura 8.1) e uno zapatista (Figura 8.2). Entrambi inneggiano a quello che un tempo veniva chiamato “internazionalismo proletario”, ovvero l’idea che i lavoratori oppressi di tutto il mondo debbano agire in solidarietà uno con l’altro. Nel manifesto sovietico, però, gli operai sono identici, se non per il colore della pelle; nel manifesto zapatista invece sono un’esplosione di colori: un crogiolo di etnie, culture, tradizioni e stili di vita.
È un insegnamento importante che il movimento no-global ci ha lasciato, e che non dobbiamo dimenticare. L’internazionalismo della sinistra non deve disprezzare o rifiutare le identità territoriali delle persone,
siano esse “locali” o “nazionali”, ma deve invece rispettarle, inserendole in un progetto internazionale che le trascenda senza negarle. Certo, è un lascito che comporta anche qualche rischio, in quanto può aprire le porte a un approccio che fossilizza le identità dei popoli, descrivendone culture e tradizioni come tratti perenni e immutabili, doverosi di protezione e conservazione.
La capacità della sinistra di oggi deve quindi essere quella di rivendicare un mondo che contenga molti mondi, un mondo multipolare rispettoso delle tradizioni e delle culture dei popoli, senza però dimenticare che la storia va avanti, le culture si incontrano e le tradizioni si evolvono.
“Il mio nemico non ha divisa / ama le armi ma non le usa / nella fondina tiene le carte visa”, così cantava Daniele Silvestri nel 2002. è una descrizione del nemico che ricorda molto quella del movimento no-global: il vero nemico è diventato sfuggente, non ha casacche, non partecipa direttamente alla competizione politica sul territorio, ma si muove agilmente fra le frontiere nazionali, decide le sorti dei popoli senza rispondere a nessuno.
Il movimento no-global ha giustamente puntato il dito su forze internazionali che, slegate da qualsiasi vincolo democratico e territoriale, hanno però una forza politica enorme che influenza profondamente le nostre vite e le nostre comunità. Il riferimento è a istituti internazionali come la Banca Mondiale, Il Fondo Monetario Internazionale e l’Organizzazione Mondiale del Commercio, e ancor più a multinazionali diventate così giganti da condizionare le politiche economiche degli Stati nazionali. Basti pensare che nel 2017, delle 100 economie più grandi del mondo, solo 31 erano Stati: le restanti 69 erano aziende multtinazionali. Il dato diventa ancora più sconvolgente se si tiene presente che queste multinazionali, di per sé già più ricche della maggioranza degli Stati del mondo, operano in alleanza tra loro per proteggere i propri interessi e spingere per l’approvazione di politiche pubbliche a loro favorevoli, coalizzandosi all’interno di lobby economiche transnazionali come per esempio la Tavola rotonda europea degli industriali, per restare solo ai casi di lobbismo negli organi dell’Unione Europea.
Il movimento no-global ha messo in luce tutto questo, rendendo visibile ad ampie fette di popolazione qualcosa difficile da vedere. L’avversario di un tempo era più facile da individuare: il “ricco padrone” – la Contessa che cantava Paolo Pietrangeli nel 1966 – viveva e agiva nello stesso territorio dei lavoratori sfruttati. Il movimento no-global ha mostrato come la globalizzazione abbia reso i “ricchi padroni” meno visibili, ma non per questo meno temibili per la sorte della gente comune e dei lavoratori.
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