Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Lo scorso 23 gennaio a Davos, il ministro dell’economia Roberto Gualtieri ha dichiarato che “L’Italia punta a un accordo globale per la web tax, ma in assenza di questo accordo scatterà la tassazione italiana a partire dal febbraio 2021”. In questo modo, l’Italia si allinea con Francia e Inghilterra nella richiesta di un regime condiviso tra i paesi Ocse per la tassazione delle compagnie digitali. I ministri dei tre paesi hanno posto l’accento sul problema dell’elusione fiscale da parte dei giganti di internet: compagnie come Google, Amazon e Facebook pagano pochissime imposte in Europa scegliendo il proprio domicilio fiscale dove la tassazione è più conveniente. Nel 2017, Facebook ha pagato solo 120.000 euro di tasse nel nostro paese; stupisce ancora di più il caso di Amazon, che nel 2018 ha pagato zero tasse a fronte di oltre 11 miliardi di profitti negli Stati Uniti.  Nella versione contenuta nella Legge di Bilancio 2019, la web tax è fissata al 3% per le imprese con ricavi di almeno 750 milioni (tra cui almeno 5,5 milioni da servizi digitali). Di fronte alla sfida della regolamentazione del mercato digitale, i governi dei paesi avanzati scontano un sostanziale ritardo, fallendo nell’obbiettivo di creare un sistema globale di gestione, controllo e tassazione dei colossi del web. Il motivo di questo ritardo risiede anche nella velocità di diffusione di queste tecnologie, che in appena venticinque anni sono state in grado di raggiungere capillarmente i quattro angoli del globo.

Secondo molti osservatori, Internet rappresenta l’innovazione che si è diffusa più rapidamente nella storia recente. Il numero di utenti digitali, 16 milioni nel 1995, ha toccato i quattro miliardi e mezzo lo scorso anno – più di metà della popolazione mondiale accede oggi al world wide web. L’enorme diffusione di internet nello scorso quarto di secolo ha aumentato esponenzialmente la possibilità di produrre, collezionare e condividere dati. In campo informatico, i dati sono intesi come informazioni elementari codificabili o codificate; si tratta di collezioni di “fatti” (numeri, parole, misurazioni, osservazioni) tradotti in un linguaggio che un computer è in grado di leggere. Il processo di aggregazione di informazioni all’interno di banche dati è spesso definito con il nome di big data. È evidente che, più le informazioni del mondo “offline” vengono trasferite “online”, più è probabile che queste siano collezionate, aggregate e utilizzate dai data analyst. Tanti elementi della nostra vita quotidiana, dai social network agli ebook, dalla musica alle app sul telefono, contribuiscono ad accrescere la quantità e la varietà di dati che produciamo in ogni momento e che di conseguenza è possibile analizzare. Nel corso degli anni, gli strumenti che utilizziamo per immagazzinare e analizzare i dati si sono rinnovati notevolmente per venire incontro all’accresciuta dimensione e complessità delle informazioni. Se in passato si effettuavano campionamenti per studiare le tendenze – economiche, politiche, culturali – oggi è possibile condurre analisi di dataset interi in poco tempo, capaci di restituire una visione molto più completa del mondo che abbiamo intorno.

Dal punto di vista politico, queste trasformazioni portano con sé rischi e opportunità. Da un lato, la rivoluzione digitale è foriera di vantaggi in campo politico, economico e sociale. Il corretto utilizzo di queste tecnologie potrebbe migliorare l’efficienza ed efficacia nell’utilizzo delle risorse pubbliche; potrebbe aumentare l’accountability dei nostri governi; potrebbe stimolare l’accesso e lo scambio di informazioni; non ultimo, potrebbe permettere ai cittadini di partecipare “di più” e “meglio” alla vita politica e sociale di un paese. Dall’altro lato, molti percepiscono l’insufficienza di sistemi coordinati di gestione, condivisione e proprietà dei dati. Negli ultimi anni, le grandi corporation di internet hanno concentrato in sé ricchezza, potere e influenza, sollevando criticità sulle questioni relative alla proprietà e alla manipolazione dei dati per motivi economici o politici. Soltanto nel 2018, Google e Facebook hanno guadagnato rispettivamente 116 e 55 miliardi di dollari in inserzioni pubblicitarie. La scarsa trasparenza nei meccanismi di gestione ed estrazione del valore dei dati è alla base di una sfiducia generalizzata da parte degli utenti: il 75% dei cittadini a livello mondiale individua in compagnie come Facebook e Twitter il principale motivo di diffidenza nell’utilizzo di Internet, al punto di associare a questi un livello di sfiducia più basso solo di quello dei cyber-criminali. In assenza di un adeguato recinto regolamentare, le piattaforme potrebbero aver contribuito alla propagazione di disinformazione, fake news, camere di eco e propaganda. Le implicazioni per i sistemi democratici di tutto il mondo potrebbero essere enormi. Secondo alcuni osservatori, le tecniche di profiling e micro-targeting utilizzate da Cambridge Analytica nei confronti di 87 milioni utenti di Facebook potrebbero aver permesso a Donald Trump di vincere le elezioni americane, colmando lo scarto di voti necessario in alcuni swing states.

Quella della proprietà e della “dignità” dei dati (data dignity) rappresenta una delle principali sfide per le democrazie liberali. I governi hanno l’ambizioso obbiettivo di valorizzare il potenziale di queste tecnologie limitandone gli effetti distorsivi. Il primo passo per farlo è favorire il dialogo sui benefici e sulle implicazioni dei dati, portando il tema all’attenzione dei policymakers e discutendo insieme di come governare questi cambiamenti all’alba del nuovo decennio. In secondo luogo, i governi dovrebbero individuare nuove strategie in grado di coniugare efficacemente i tre elementi di stato, crescita e innovazione, senza però tarpare le ali al potenziale innovativo e produttivo dei nuovi creatori di ricchezza; urge far sì che le tecnologie digitali e di gestioni dei dati diventino motore di sviluppo in un processo guidato dallo “stato innovatore”. Infine, dobbiamo porci nuove domande: cosa sono i dati? Si tratta di beni di proprietà, comuni o collettivi? Dovremmo essere pagati per i dati che condividiamo? Chi ha il diritto di gestirli? Chi ha la sovranità sui dati – il livello territoriale, quello nazionale o ancora il sistema internazionale? La rivoluzione digitale sta già succedendo: è ora di porci queste domande – e di trovare al più presto delle risposte.

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