Come cambiano i programmi di supporto e finanziamento alle economie dei luoghi e delle comunità in transizione? Quali sono gli sforzi collettivi per immaginare e sperimentare scenari nuovi e alternativi per lo sviluppo delle economie? Come si supportano economie iper-locali in grado di ispirare programmi sistemici e di lungo periodo per uno sviluppo locale rigenerativo, profondamente connesso all’essenza dei luoghi e delle comunità?
L’imprescindibile dimensione territoriale della pandemia e della transizione
Nel 2020 la pandemia Covid-19 ha colpito più di 50 milioni di persone al mondo, accelerando fragilità preesistenti e innescando la più grave crisi economica dalla Seconda Guerra Mondiale.
Mentre l’inizio del 2021 e il perdurare delle ondate pandemiche hanno confermato uno stato di radicale incertezza, emerge sempre più chiaramente la forte dimensione territoriale della crisi in corso e delle risposte messe in campo.
L’OECD, nel suo rapporto “The territorial impact of Covid-19: Managing the crisis across levels of government”traccia un quadro in cui le unità di governo sub-nazionali come regioni e comuni, in prima linea nella risposta all’emergenza e nell’implementazione delle prime azioni di ricostruzione, si trovino ad avere a che fare con un impatto “asimmetrico”. L’impatto economico e sociale della pandemia, e le conseguenti politiche di ripresa, subiscono grandi variazioni dipendentemente dai settori di sviluppo dei territori, delle infrastrutture e risorse a disposizione.
Da un lato abbiamo le grandi città e aree metropolitane.
Oggi circa il 55% della popolazione vive in città, dato destinato a crescere al 70% entro il 2030. L’attenzione mediatica è stata catalizzata dall’impatto della pandemia su questa tipologia di territori, già in forte difficoltà davanti alla sfida degli obiettivi fissati dall’Agenda 2030 e gravati da polarizzazioni socioeconomiche profondamente radicate. Le grandi città e aree urbane globali, sede delle più complesse sfide sociali, economiche e ambientali del millennio e depositarie delle promesse di un futuro di cui sembravano essere le uniche portatrici, sono state travolte dalla pandemia, aprendo un ampio dibattito su un possibile cambiamento dei trend di urbanizzazione. UN Habitat, stima che le risorse finanziarie disponibili alle autorità locali urbane potrebbero diminuire in media tra il -15% e il -25% nel 2021, con le perdite maggiori nelle realtà urbane nei Paesi in via di sviluppo. Lo scenario europeo si presenta altrettanto severo: secondo il Comitato europeo delle Regioni il 78 % dei rispondenti in rappresentanza di comuni di grandi dimensioni (oltre 250 000 abitanti) riferisce di un forte impatto della Covid-19 sulle finanze e sul funzionamento di tali comuni. L’83% dei rispondenti prevede una diminuzione del gettito fiscale, e il 53 % ritiene che tale diminuzione sarà di ampie proporzioni.
Dall’altro, ci sono ci sono le aree interne, rurali e montane, le città di medie e piccole dimensioni.
Territori marginali, che interessano oltre il 60% del territorio nazionale ed il 7,6% della popolazione italiana, caratterizzati da una struttura fragile e parcellizzata dell’occupazione, da forti disuguaglianze educative e una diffusa carenza di competenze digitali di base malgrado siano detentrici di grandi risorse ambientali, economiche e culturali. Questi territori, in modo differente rispetto le grandi metropoli, si sono inaspettatamente trovati travolti da altrettanta attenzione di media e analisti. La narrazione del “restare”, del tornare, ripopolare e riabilitare è stata rafforzata dalla pandemia, ponendo questi luoghi in una nuova posizione nelle geografie della ripresa: da margini a nuova frontiera (Filippo Tantillo) per pionieri dello smart-working, studenti e lavoratori in fuga dalle città in lock-down e desiderosi di sperimentare stili di vita resi possibili dalla nuova realtà. Un’indagine di Svimez (Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno) realizzata in collaborazione con l’Associazione South Working-Lavorare dal Sud, sostiene che dall’inizio della pandemia tra le 45.000 e 100.000 persone hanno optato per tornare nel Sud Italia (aree urbane e non urbane) e stiano lavorando in modalità di smart working per aziende con sede al Centro-Nord o all’estero.
La sfida chiave per gli attori pubblici e privati che concorreranno a mettere in campo le strategie di ripresa, sarà quella di imparare a osservare e comprendere le correnti di cambiamento in atto, e saperle interpretare a vantaggio dei nuovi modelli di sviluppo locale che è possibile intravvedere tra gli spiragli dell’attuale crisi. È necessario cercare di comprendere quanto i governi regionali e locali siano equipaggiati per abitare questo spazio di auto-analisi e osservazione, capitalizzando il rinnovato significato di coscienza sociale per la costruzione di economie più forti e radicate all’interno delle comunità di riferimento.
Brindisi: economie in transizione tra riscatto e immaginazione del futuro
Brindisi rappresenta un caso di particolare interesse per raccontare un modello in cui l’innovazione sociale e l’azione politica intervengono nella decostruzione e (re)immaginazione dell’approccio a un nuovo sviluppo locale, in cui cittadini, amministrazione e attori privati sperimentano nuove geometrie di collaborazione.
Prima di avvicinarsi a quanto succede oggi a Brindisi, è necessario fare un passo indietro.
Trenta minuti dopo la mezzanotte dell’8 dicembre 1977, la città pugliese subì un brusco risveglio da un ventennio di accelerazione economica portato dall’avvento dell’industria petrolchimica, chimica e farmaceutica: l’esplosione dell’impianto P2T del petrolchimico segnò iniziò a far emergere le problematiche dello sviluppo di un modello economico che aveva inquinato l’ambiente, soffocato altri settori (agricoltura, pesca, turismo), indebolendo i processi democratici a favore dei gruppi industriali. Questo avvenimento inaugurò una lunga crisi di un modello industriale calato dall’alto, sull’onda della Strategia per lo Sviluppo del Mezzogiorno, provocando un impatto diretto sul tessuto economico e sociale della città, le cui fragilità hanno agevolato l’insediamento della Sacra Corona Unita e il radicamento di problematiche complesse, quali forti tassi di disoccupazione giovanile, povertà e degrado ambientale.
Come sottolineato da una ricerca condotta per conto di Anci e del Comune nell’ambito del progetto Interreg Med +Resilient, Brindisi è stata per anni una città che ha subito un modello di sviluppo estraneo alle proprie vocazioni. Dal 2019, l’amministrazione e la comunità hanno intrapreso con passo deciso un percorso di ricerca e sperimentazione di una nuova identità per lo sviluppo locale, con l’obiettivo di diversificare la base economica e sociale della città con processi di attivazione dal basso, in grado di stimolare l’emergere di nuove vocazioni, risorse, attori e modi di fare economia.
La città ha lanciato una vera e propria convocazione collettiva per la trasformazione del proprio sistema socioeconomico al fine di produrre non solo per il mercato, ma per un’economia locale in equilibrio e la costruzione di traiettorie evolutive comuni e condivise.
Malgrado questo articolo non abbia lo scopo di approfondire le specifiche progettuali delle molteplici azioni implementate (di cui si può trovare un’esaustiva panoramica nell’articolo di Giacomo Pisani per Percorsi di Secondo Welfare e in quello di Felice Addario su Che Fare), è interessante esplicitare il loro inquadramento su tre differenti piani:
- l’attivazione di nuovi attori e progetti imprenditoriali orientati all’innovazione economia e sociale;
- la costruzione di una rete di luoghi generativi a partire dalla valorizzazione del patrimonio pubblico sottoutilizzato;
- i progetti orientati all’attrazione di risorse economiche e simboliche.
Questi tre pilastri strategici, simbolo di una complessa operazione di emersione e (ri)cucitura di relazioni, fiducia e scambio tra popolazione e amministrazione locali, hanno trovato il loro cantiere operativo in un luogo, Palazzo Guerrieri: Laboratorio di Innovazione Urbana e sperimentazione di policy locali, ma anche spazio aperto alla comunità per condividere momenti di formazione, lavoro e progettazione.
Una delle operazioni più interessanti portate avanti da Palazzo Guerrieri è stata quella di elaborare una visione di sviluppo locale fondata sull’identificazione di sei vocazioni territoriali da valorizzare e rafforzare: ambiente, agricoltura, welfare e educazione, turismo e cultura, rigenerazione urbana, artigianato e manifattura. L’affinamento di questa visione, profondamente radicata nel territorio e nella comunità di riferimento, ha reso possibile avviare la progettazione nell’ambito di bandi importanti quali il Fondo Innovazione Sociale e l’interlocuzione con nuovi e potenziali partner.
Il caso studio: Bravo Innovation Hub
Il caso studio che presentiamo, nasce all’interno della cornice vocazionale suddetta che, nello specifico, porta Invitalia e la città di Brindisi a ragionare insieme sul gruppo di vocazioni “Turismo e Cultura”.
Al termine della prima ondata pandemica, il 25 Giugno 2020 viene firmato il Protocollo di intesa per la realizzazione a Brindisi di un Hub di Accelerazione dedicato alle imprese del turismo e della cultura più innovative del Mezzogiorno. Viene promosso da Invitalia (l’Agenzia Nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo di impresa), MISE ed Infratel, nell’ambito PON Imprese e Competitività 2014-2020. Brindisi viene quindi proposta come una città paradigma del Mezzogiorno: un possibile catalizzatore di sistema in grado di guidare una crescita corale.
Il progetto presenta le caratteristiche tipiche di un processo di accelerazione dedicato alle nuove imprese: un programma di formazione e capacity building articolato, consulenze strategiche da parte di esperti dei settori economici coinvolte, l’accompagnamento da parte di tutor e mentor, attività di networking e di sviluppo di soft skills, opportunità di dialogo con potenziali investitori. Oltre a questi aspetti tradizionali, il caso studio in esame rappresenta uno dei più interessanti e recenti tentativi di investire su nuovi modelli di economie locali, intercettando necessità e vocazioni comunitarie, al fine di proporre coordinate di sviluppo efficaci ed inclusive.
Due fattori particolari concorrono a rendere questo caso studio, uno stimolante esempio di riscatto e un possibile modello di ripresa per l’economia post-pandemia.
Una risposta radicata ai luoghi
Il programma BRAVO vede la partecipazione di dieci imprese: quattro hanno sede in Campania, tre in Puglia, due in Sicilia e una in Basilicata. Tutte sembrano tentare di rispondere alla crisi portando al centro dei propri modelli di business ambiente, cultura e centralità degli individui per cui il servizio e/o prodotto viene pensato.
Al di là delle caratteristiche specifiche dei progetti imprenditoriali è interessante sottolinearne l’aspetto comunitario e strettamente legato ai luoghi, portando alla luce una questione emersa chiaramente dal dibattito recente su impresa e società, che vede il patrimonio di saperi, culture, esperienze, tradizioni a fornire alle persone la direzione da percorrere per la crescita (Venturi, Zandonai).
Le imprese partecipanti assumono in larga parte la configurazione di cooperative di comunità, imprese sociali e piattaforme che tentano si superare i modelli estrattivi della sharing economy e a modelli di consumo tradizionali. Costruiscono la propria offerta di valore a partire da un nucleo generativo, volto ad abilitare le connessioni e la cooperazione tra attori locali e terzi (es. valorizzando la conoscenza dei territori degli abitanti locali per rispondere alle esigenze dei cittadini temporanei e turisti) e a utilizzare le tecnologie digitali per incrementare l’accessibilità non solo di prodotti e servizi ma anche a veri e propri patrimoni di conoscenze ed esperienze.
Un potenziale moltiplicatore
Turismo e cultura non rappresentano una scelta casuale, ma una volontà specifica di agire su settori altamente generativi.
Secondo il Rapporto Io Sono Cultura 2019, la cultura ha effetti anche sul contesto nell’ambito della quale sviluppa, grazie a un effetto moltiplicatore pari a 1,8: per ogni euro prodotto dalla cultura se ne attivano 1,8 in altri settori. I 95,8 miliardi prodotti ne ‘stimolano’ altri 169,6 per arrivare a 265,4 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come primo beneficiario di questo effetto volano. Il Sistema Produttivo Culturale e Creativo (da solo, senza considerare gli altri segmenti della nostra economia) dà lavoro a più di 1,55 milioni di persone, il 6,1% del totale degli occupati in Italia.
La pandemia ha causato ingenti perdite per il settore culturale e turistico. Secondo il 16° Rapporto Annuale Federculture Impresa Cultura il 70% delle imprese stima perdite del 40%, il 13% oltre il 60% e il 50% una riduzione e ridefinizione delle attività. Tuttavia, questi dati non sminuiscono il potenziale latente di queste economie, in grado di catalizzare e attrarre processi di benessere collettivo su larga scala. L’organizzazione Mondiale del Turismo (WTO) ha statuito chiaramente l’interdipendenza tra i settori della cultura e del turismo e l’importanza di superare la crisi Covid attraverso la creazione di nuove partnership collaborazioni, reinventando l’offerta, attraendo nuovi audience e sviluppando nuove competenze per contribuire alla transizione verde e sostenibile delle comunità.
Proposte per prospettive future
Il caso della città di Brindisi e il programma BRAVO rappresentano importanti esperimenti per testare il ruolo contributivo delle imprese a finalità sociale all’interno delle catene del valore territoriali (AICCON), e per continuare a sostenere la centralità della partecipazione attiva della cittadinanza nel progettare il tessuto economico sociale delle proprie comunità.
Per far sì che queste sperimentazioni, più o meno volontarie, possano diventare dei veri luoghi dell’apprendimento per cittadini, imprese e istituzioni è necessario che esse diventino in grado di adattarsi alla natura in costante evoluzione di luoghi e comunità. Dietro l’idea di abilitare e supportare territori e comunità in transizione, si cela infatti il nodo della sostenibilità economica, sociale e culturale: i promotori e finanziatori di queste iniziative devono diventare sempre più abili a guardare oltre la narrazione tradizionale dell’innovazione, dell’imprenditoria e del marketing territoriale. La transizione sostenibile delle economie locali richiede infatti un attento equilibrio tra policy, iniziative individuali e imprenditoriali che, combinate insieme, agiscono per il raggiungimento di obiettivi comuni.
Le politiche di sperimentazione di policy locali inclusive come quelle della città di Brindisi e i programmi di supporto all’imprenditoria come Bravo dovranno evolversi per:
Creare infrastrutture adattabili e durevoli, con l’obiettivo di andare oltre le singole organizzazioni/imprese, per concentrarsi sulla creazione di piattaforme, ecosistemi, e reti: strutture complesse e solide, che rendono possibili ed efficaci progetti e iniziative multi-stakeholder e diversificate. Cosa rimane quando il finanziamento/progetto finisce?
Guardare al cambiamento sistemico dalla prospettiva dei luoghi, che diventano pilastri fondanti di economie e identità collettive locali, in grado di operare e trasformarsi all’interno dell’economia locale.
Coinvolgere le comunità nel design stesso dei programmi e dei processi di finanziamento. Accelerare e supportare economie locali sostenibili e socialmente responsabili, richiede la partecipazione di chiunque ne sia coinvolto: sia perché possano essere in grado di interpretare correttamente i bisogni ai quali intendono rispondere, sia per identificare soluzioni adeguate. Così come l’innovazione del futuro non può che essere sociale, le economie dovranno essere imprescindibilmente collaborative e fondate sulla biologia dei luoghi e comunità di cui sono espressione.
Rendere democratici e inclusivi i processi e programmi di innovazione, affinché possano coinvolgere e rappresentare gruppi usualmente esclusi. Filippo Barbera, in un recente articolo sul Manifesto, dà voce a un’idea cruciale per lo sviluppo di politiche economiche locali sostenibili e condivise: “Il Recovery Plan […] deve, al contrario, dare voce al potenziale innovativo diffuso nella società, trasformando l’esperienza del fallimento in apprendimento individuale e collettivo, riconoscendo il ruolo degli “innovatori marginali”, lontani dai centri di potere e dallo story-telling dominante. Persone, organizzazioni e territori dissonanti, che introducono una nota diversa nella solita musica che siamo abituati ad ascoltare. […] Il Recovery Plan può viceversa rappresentare l’occasione per allargare il perimetro dell’innovazione, disaccoppiandolo dalla logica dell’eccellenza, dando a tutti la possibilità di sperimentare senza l’obbligo morale di perseguire il successo”.
La complessità incrementale delle problematiche accelerate dal Covid-19 ci pone davanti alla sfida più grande di sempre: superare l’approccio settoriale secondo cui gli sforzi di costruzione di ecosistemi partecipativi per rigenerazione territoriale e sociale, spesso portati avanti da amministrazioni locali e società civile con risorse scarse, procedono separatamente dalle iniziative di finanziamento di processi di innovazione a supporto dell’imprenditoria. Solo lavorando per assicurare ampia accessibilità e partecipazione alla programmazione ed erogazione di queste ultime, potremo essere in grado di innescare un vero cambiamento sistemico che includa non solo chi ha il tempo e le risorse per parteciparvi, generando ricadute positive collettive.