Portavoce di ASViS - Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile

Proponiamo qui un estratto del testo di Enrico Giovannini tratto dal volume Strade giuste. Economia e società nel segno del bene comune disponibile nelle Librerie Feltrinelli e in tutti gli store online.


Il modello di sviluppo come l’abbiamo vissuto negli ultimi settant’anni non regge più e la consapevolezza di ciò va maturando. Il sistema appare in crisi soprattutto nei paesi più industrializzati. Numerose analisi indicano che il tasso di crescita dell’economia, misurato con il Pil, sarà nei prossimi anni mediamente dell’ordine del 2 percento e dunque insufficiente non solo ad assorbire la disoccupazione e la povertà createsi negli ultimi dieci anni, ma anche a generare un numero adeguato di posti di lavoro “decenti” (per usare il termine coniato dalle Nazioni Unite) in presenza dello shock tecnologico derivante dalla robotica e dalle sempre più estese applicazioni dell’intelligenza artificiale. Inoltre, un tasso di crescita così basso non basterebbe a fornire le risorse economiche necessarie per ammodernare le infrastrutture costruite nel secondo dopoguerra, oggi in molti casi decadenti, e a metterne in cantiere di nuove, comprese quelle “immateriali”. La verità è che, passatemi l’espressione, si può “frustare il cavallo” quanto si vuole, ricorrendo al quantitative easing o a politiche fiscali estremamente espansive, come quelle proposte da Trump, ma non è questo che può risolvere i problemi di cui stiamo parlando. Analogamente, replicare nei Paesi in via di sviluppo o emergenti, dove i tassi di crescita del Pil saranno molto più sostenuti (il che continuerà a portare fuori dalla povertà estrema centinaia di milioni di persone), il modello seguito dai paesi industrializzati determinerebbe una condizione totalmente insostenibile per il Pianeta.

Ovviamente, i grandi attori internazionali non possono non avere contezza di queste sfide e non a caso c’è già una “guerra” in corso per il controllo delle risorse destinate a esaurirsi. Che la scarsità di risorse idriche sia un fattore foriero di guerre e tensioni è ben noto, così come è ben noto che la futura disponibilità di acqua sarà un serio problema, soprattutto in alcune aree “calde” del Pianeta. Ma non è solo una questione di acqua. Oggi sappiamo che è in corso una analoga competizione per assicurarsi il controllo sulle materie prime necessarie a produrre gli strumenti tecnologicamente avanzati (telefoni, computer, server e così via) che gestiscono i sistemi di immagazzinamento e scambio di dati, da cui dipende ormai la nostra stessa vita, non solo il benessere economico.

Il cambiamento climatico è un fattore che certamente determinerà profondi mutamenti negli assetti delle varie regioni del Mondo. In Europa, per esempio, secondo alcune previsioni il Nord beneficerà del cambiamento climatico, assestandosi su temperature più miti, mentre l’area del Mediterraneo diventerà molto meno vivibile, con un’agricoltura non sostenibile. Secondo altri studi, invece, se si fermasse la corrente del Golfo, che recenti dati indicano aver rallentato la propria velocità, sarebbe il Nord Europa a passare sei mesi all’anno sotto la neve e questa condizione farebbe la fortuna delle aree meridionali, come il nostro Mezzogiorno, perché tantissimi europei si sposterebbero verso il Sud del continente.

Cambiamenti geopolitici, ambientali, economici come quelli appena ricordati, in un mondo globalizzato, sono destinati a generare “non linearità” che possono davvero rivoluzionare il corso degli eventi. In un mondo globale interconnesso, in cui non esistono più compartimenti stagni, la probabilità che instabilità settoriali o geograficamente localizzate interagiscano tra di loro amplificando gli effetti sull’intero sistema è altissima, mentre i sistemi di governo restano fondamentalmente nazionali.

Di fronte a un futuro planetario disseminato di sfide del tutto nuove e di rischi così elevati possiamo adottare tre possibili atteggiamenti. Nel primo, ci si può abbandonare a una visione “distopica”, cioè a una visione così negativa del passato da non lasciare alcuna fiducia nel presente né tanto meno nel futuro; secondo questa visione, dunque, è inutile impiegare energie e sforzi per un progetto a lungo termine: gli anni a venire saranno tanto duri e catastrofici che tanto vale approfittare di tutto subito, in barba a ciò che accadrà. La seconda possibile attitudine nei confronti di un avvenire incerto è la retrotopia, come la definisce il sociologo Bauman nel suo ultimo saggio pubblicato da Laterza, ovvero l’idea che il salto che dobbiamo compiere è talmente ampio che è meglio cercare di tornare indietro, a un’età dell’oro che in realtà non è mai esistita. Invece che ragionare veramente in termini globali, è meglio chiudersi nel nazionalismo ed elevare muri (fisici, commerciali e immateriali), allo scopo di proteggersi da un mondo troppo complesso, come propongono i movimenti populisti e sovranisti. La terza soluzione, descritta nel mio libro “L’Utopia sostenibile”, è accettare l’Agenda 2030 adottata dalle Nazioni Unite come chiave per affrontare con metodo e consapevolezza le crescenti urgenze in una prospettiva di lungo respiro, nella convinzione che un futuro diverso, più equo e sostenibile, sia davvero possibile.

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