Per alcuni mesi, tra il 1949 e il 1950, l’agenda politica italiana fu animata dal dibattito sul Piano del Lavoro, una proposta lanciata da Giuseppe Di Vittorio a Genova in occasione del II congresso della CGIL.
Il progetto confederale prevedeva un programma organico di investimenti pubblici in tre settori fondamentali dell’economia (agricoltura, edilizia ed energia), con l’obiettivo di sconfiggere la disoccupazione di massa; in estrema sintesi, lo Stato avrebbe dovuto assumere un ruolo trainante nello sviluppo del Paese per favorirne il processo di industrializzazione.
Due gli elementi che, a distanza di decenni da quell’evento, mantengono una pregnante attualità: il respiro internazionale della proposta e il rapporto tra sindacato e politica.
1) Sul primo punto, occorre rilevare che il Piano del Lavoro del 1949 s’inserì in un clima culturale e politico che era nel solco delle risposte alla grave crisi del ’29, basate sulla presenza attiva della “mano pubblica” per sopperire ai difetti di un mercato capace di produrre guasti tremendi se lasciato privo di regole. Fu il New deal americano a inaugurare una politica di presenza che interessò trasversalmente il mondo occidentale, coinvolgendo democrazie consolidate, ma anche i regimi fascisti, con risposte ovviamente diverse non solo per i differenti livelli di intervento statale, ma soprattutto per il contesto (liberale o autoritario) in cui esse vennero fornite. Primato della pianificazione pubblica dell’economia attraverso investimenti imponenti nei settori strategici, e politiche monetarie e fiscali di supporto ne furono l’espressione essenziale.
La proposta della CGIL risentiva dell’esperienza belga del Piano De Man e di quella francese del Plan du travail, lanciato dalla CGT negli anni ’30, ma coinvolgeva anche una nuova leva di economisti che avrebbero segnato le culture economiche dell’Italia repubblicana: giovani economisti di tendenza keynesiana (come Giorgio Fuà, Sergio Steve e Paolo Sylos Labini), impegnati a contrastare l’egemonia liberista nella politica economica, fondata sul contenimento della spesa pubblica e sul pareggio di bilancio (la cosiddetta linea Einaudi-Pella).
2) Da tale contaminazione uscì rafforzata una cultura sindacale originale, da non disgiungere dalla vicenda storica della Confederazione: ad esempio dal ruolo assunto dalle Camere del Lavoro sin dall’inizio del ‘900 all’esperienza dei Consigli di gestione e delle Conferenze di produzione nel secondo dopoguerra. La cultura della CGIL si presentava come un contributo politico autonomo, frutto anche dell’incontro fecondo tra la maggioranza comunista e la minoranza socialista, che aveva l’obiettivo ambizioso di rappresentare tutti i lavoratori (ma anche disoccupati e pensionati), iscritti e non iscritti, per dare vita a un sistema pienamente democratico, di cittadinanza per tutti, fondato sul diritto al lavoro, come sancito dalla Costituzione.
L’impegno politico del sindacato era un concetto (parzialmente) inedito, respinto dagli industriali e dalle forze centriste (comprese CISL e UIL), ma poco digerito anche da PCI e PSI, convinti del primato della “forma-partito”. La loro reazione al Piano fu duplice: da un lato la proposta fu sostenuta poiché poteva creare difficoltà al governo, sollecitato a dare risposte concrete a milioni di disoccupati; dall’altro lato, però, fu palese la diffidenza verso un sindacato che finiva per sfidarli sul loro stesso terreno.
La necessità di ragionare in chiave internazionale e la questione del rapporto tra sindacato e politica sono due aspetti del Piano confederale che ancora oggi interrogano sia gli studiosi, sia gli attori sociali e istituzionali. In un’epoca segnata dalle crescenti tensioni internazionali, dalle difficoltà europee in tema di politiche monetarie, fiscali e industriali, dai limiti degli Stati nazionali di fronte alle sfide della globalizzazione, l’esperienza del Piano del Lavoro del 1949 è ancora in grado di fornire indicazioni utili per ottenere finalmente “un’economia al servizio dell’uomo”.
Fabrizio Loreto
Università degli Studi di Torino
22/02/2015
Biografia dell’autore
Fabrizio Loreto è ricercatore di Storia contemporanea presso l’Università di Torino. Sul tema ha curato il volume Sul Piano del Lavoro. Antologia di scritti (1949-1950) (Ediesse, 2013) e, insieme a Stefano Musso, Il Piano del Lavoro del 1949. Contesto storico internazionale e problemi interpretativi (Ediesse, 2014).