Università di Siena

Un danno auto-inflitto per Theresa May, un netto e insperato passo in avanti per i laburisti di Jeremy Corbyn. Questo, in sintesi, il verdetto più immediato di un’elezione che aggiunge un tassello alla peculiare storia recente della politica britannica, il cui filo conduttore è un’imprevedibilità che si esprime in forme mutevoli.

Come nel 2010, le elezioni restituiscono al paese un inusuale hung Parliament, in cui nessun partito raggiunge una maggioranza assoluta. Allora, i conservatori di Cameron avevano dato vita (con i liberaldemocratici) alla prima coalizione insediatasi a Westminster dal 1945, che aveva portato a termine i cinque anni di legislatura all’insegna dell’austerità fiscale. Le successive elezioni del 2015 avevano apportato novità – con lo UKIP ben al di sopra del 10% in Inghilterra e Galles e, soprattutto, lo Scottish National Party capace di aggiudicarsi 56 dei 59 seggi scozzesi – ma pure avevano ripristinato un governo conservatore di maggioranza assoluta. Nel 2016, però, l’insieme di spinte identitarie, tendenze anti-immigrazione, malcontento per le disuguaglianze economiche e ostilità all’establishment – che le elezioni avevano nascosto sotto il tappeto – aveva condotto alla destabilizzante vittoria del Leave nel referendum sulla Brexit, dopo che già nel 2014 il referendum sull’indipendenza della Scozia aveva tenuto i cittadini britannici e non con il fiato sospeso.

Guardando ai soli numeri, il voto britannico sembrerebbe aver rafforzato i due partiti principali, invertendo una precedente tendenza al rafforzamento di partiti a base “regionale”. Conservatori (42%) e laburisti (40%) ottengono congiuntamente più dell’80% dei consensi, per la prima volta dal 1979. I liberaldemocratici, dopo la débâcle del 2015 seguita alla partecipazione al governo di coalizione, si assicurano appena il 7% e una decina di seggi. Lo UKIP, paradossalmente indebolito dall’aver raggiunto il suo principale obiettivo con la vittoria del Leave, oltre che dal ritiro del suo ex-leader Farage, crolla al di sotto del 2%. Quanto allo SNP, resta il primo partito di Scozia e mantiene 35 seggi, ma conservatori (29% in Scozia) e laburisti (27%) invertono (soprattutto i primi) il loro declino.

Nell’insieme, la politica britannica sembra essersi “ri-nazionalizzata” attorno ai due partiti maggiori. Difficilmente, però, Theresa May potrà gioirne. Il primo ministro uscente, che ha premuto per elezioni anticipate (rinnegando la propria parola) per sfruttare l’ampio vantaggio nei sondaggi e assicurarsi un mandato forte per una hard Brexit, ha dilapidato buona parte del proprio credito. I conservatori si avviano quindi all’inizio dei negoziati con l’UE indeboliti, senza maggioranza in un Parlamento che dovrà esprimere un voto per ratificare l’accordo finale. Il partito non può permettersi i costi (in termini di tempo e contrasti interni) legati all’elezione di un nuovo leader, ma la strong and stable leadership promessa da May appare ormai un miraggio.

Corbyn non ha vinto, ma la sua proposta di cambiamento è viva. Dopo la sua imprevista elezione a leader nel 2015, le critiche seguite al suo ruolo defilato nella campagna per il Remain e i contrasti duri e continuativi con la parte centrista del partito ne avevano compromesso l’immagine pubblica, mentre la stampa conservatrice aveva buon gioco a dipingerlo come un massimalista ancorato ad un passato ormai remoto. Per lungo tempo, nonostante aumenti nelle iscrizioni al partito, è sembrato dubbio che il conviction politician potesse arginare il declino del Labour – sempre più stretto fra i nazionalismi inglese e scozzese – e ristabilire il legame con un’opinione pubblica che in larga parte non sembrava condividerne le idee economiche e sociali. L’apprezzato programma presentato dai laburisti, solidamente socialdemocratico in campo economico e accorto nel prevedere coperture per gli investimenti prospettati, ha contribuito a una rimonta che, in appena due mesi, ha spazzato via i precedenti scenari di un assoluto disastro, in apparenza anche grazie ad un notevole aumento dell’affluenza al voto fra i giovanissimi. Se vi è qui una lezione da trarre, sta forse nell’idea che il compito di un uomo politico sia di plasmare una visione sapendo accettare il compromesso: guidare, non meramente seguire.

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