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Copertina del primo numero “Amistad: Writings on black history and culture”, 1970 – Rivista portata in Italia da Feltrinelli.
Gli anniversari e l’età invitano a prendere le mosse dall’autobiografia.
Per chi, come me, apriva gli occhi sul mondo negli anni Sessanta i libri e le riviste erano il pane quotidiano.
Gli editori di riferimento erano Einaudi, Feltrinelli e Laterza, e a Milano la libreria Feltrinelli era il luogo del pellegrinaggio a esplorare la foresta delle riviste.
E poi, per chi era più avanti o aveva già finito gli studi, esisteva l’accesso al santuario laico dell’Istituto (aperto come “Biblioteca” nel ‘49).
Come se Giangiacomo Feltrinelli fosse venuto al mondo per noi e per metterci tutto a portata di mano.
La libreria di via Manzoni, aperta nel ’57, era per tutti.
L’Istituto, trasferito in via Romagnosi nel ’61, era per pochi adepti.
E ancora meno erano quelli che giravano l’angolo con Via Andegari e salivano alla casa editrice, nata nel ’54 in via Fatebenefratelli, e allora a pieno ritmo.
Ma lì saliva solo chi aveva qualcosa da fare o da dire con i libri.
Io quell’ascensore l’ho preso per la prima volta nel 1972.
Giangiacomo Feltrinelli non lo incontravi.
Però sapevi che c’era, nume tutelare e benemerito di una eccezionale concentrazione di luoghi del sapere che prima di lui non esisteva: nell’Istituto la raccolta, archiviazione e conservazione di “tutto” ciò che era importante, nella casa editrice la scelta delle opere che valeva la pena di far conoscere, l’intero mondo dei libri in circolazione reso disponibile in libreria.
Qualche volta hai pensato che di tutto quanto lui era il solo padrone, e anche, però, che la Resistenza e la militanza comunista ne avevano fatto un “traditore della sua classe” e che era una fortuna che fosse tanto anomalo da usare i suoi soldi in quei modi.
Certo, volevi bene anche a Laterza e ancor più a Einaudi e, in nome dell’amore per i libri, avevi il dovuto rispetto per Bompiani e i Mondadori.
Ma in nessun altro caso la “carta stampata” come veicolo di senso era così proiettata dal passato al futuro come lo era per lui.
Riguardando le cose da lontano: dei primi 21 libri pubblicati nel 1955, solo due erano “italiani” (e qualificanti: Una spia del regime, a cura di Ernesto Rossi, e Fascismo e resistenza,); cinque anni dopo, i libri pubblicati erano 107 (inclusi Zivago e Gattopardo) e gli autori italiani erano poco meno della metà.
Credibilità e produzione erano cresciute in fretta, e avevano preso corpo rapidamente l’ampio ventaglio internazionale degli autori e il drenaggio della saggistica e narrativa che avrebbero caratterizzato “la Feltrinelli” d’allora in poi.
Con ancora un handicap alla partenza che sarebbe stato cancellato nei decenni successivi: in quei primi cinque anni le autrici italiane pubblicate non arrivavano a 10.
Ma allora non ci si faceva caso. Era molto più importante trovare tutte quelle finestre aperte.
Libri e riviste suscitavano domande, in Istituto cercavi le risposte.
La porta di via Romagnosi si aprì, per me, intorno alla metà degli anni Sessanta. Il campo della mia ricerca accademica si stava aprendo sull’America.
Erano tempi che chiamavano lettori e militanti a esplorazioni vaste: la storia e i teorici del movimento operaio internazionale, naturalmente, poi i movimenti in atto: la decolonizzazione, l’America latina (dopo Cuba), e l’America del Nord.
All’americanista in formazione erano gli eventi sociali e politici negli Stati Uniti a porre le domande più stringenti sulle ragioni, i protagonisti e le radici dei movimenti.
In Istituto non c’era tutto; per esempio, c’erano molti materiali ufficiali dell’American Federation of Labor, ma non quelli del C.I.O., né quelli dell’I.W.W.: la nuova storiografia della classe operaia sarebbe arrivata dopo gli anni Settanta.
Copertina del romanzo di Baldwin, pubblicato da Feltrinelli
Ma c’erano libri di storia, sociologia ed economia (tra questi i dieci volumi della Documentary History of American Industrial Society) e altrimenti introvabili collezioni di riviste delle sinistre statunitensi, vecchie (come la International Socialist Review e la New Review, o New Masses) e nuove (come la Nation, Partisan Review, Monthly Review, New Republic..).
Giangiacomo Feltrinelli e James Baldwin in Italia
A sorpresa, accanto alle collezioni “scomplete” delle riviste della New Left (Guardian, Liberation…), c’erano persino numeri unici o sparsi di giornali della cultura hippie e underground del momento (e su molte delle fascette dell’invio per posta risultavano indirizzate a Giuseppe Del Bo, cosa che testimoniava della sua curiosità…), le cui fantasiose copertine sono state poi esposte in Fondazione nel 2010, ‘13 e ’18.
Copertina del magazine The Fifth Estate, aprile 1969
Nello stupore per la ricchezza di materiali di un Istituto nato dal nulla pochi anni prima, mi facevo domande sui modi, i luoghi e i costi delle acquisizioni. La soggezione mi ha sempre impedito di fare domande al professor Del Bo, il direttore.
Alla fine, è stato Carlo Feltrinelli a fornire le risposte in Senior Service. Tra l’altro, dando un’idea sia dell’impegno finanziario per il padre, sia rendendo evidente la passione che metteva di persona nella ricerca e nei contatti con i librai antiquari in giro per l’Europa.
Anni pieni, inutile dirlo. La sera in cui nella libreria di via Manzoni tre professori presentavano Sempre più nero di LeRoi Jones, nel maggio 1968, le loro voci furono coperte da quelle di un corteo operaio, le tute bianche della Pirelli in testa, che andava alla Triennale in solidarietà con gli artisti che la occupavano.
Anni ricchi, in cui letteratura e storia, arte e politica si intrecciavano con lo studio e la militanza nei percorsi della crescita personale. Per questo erano preziosi gli archivi per la ricerca e l’intelligenza per le scelte di che cosa pubblicare.
Nessuna di queste “cose” poteva farle una persona da sola.
Dall’immediato dopoguerra agli anni Sessanta, Giangiacomo Feltrinelli seppe circondarsi delle persone necessarie e giuste per quello che aveva in mente.
La Biblioteca crebbe e divenne Istituto nel 1960 e sarebbe diventata Fondazione nel ’74.
L’iniziativa di quell’ultimo passo era stata sua, ma a quel punto lui non c’era più.
Spettò ai suoi collaboratori e amici più stretti, Giampiero Brega in casa editrice e Giuseppe del Bo in Istituto (e certo, ad altri dopo di loro), continuarne l’opera. Due cose, in conclusione.
Per quanto riguarda la Biblioteca-Istituto-Fondazione e le finalità dichiarate nel 1949, non solo l’ambizione di farne un luogo esemplare in Europa non è stata mai ridimensionata da lui e dai suoi continuatori; l’obiettivo è stato raggiunto.
Ma forse, più ancora della crescita, è la nascita a essere stupefacente: nel 1948, Giangiacomo Feltrinelli aveva 22 anni (era del 1926), e Giuseppe Del Bo, che lo affiancò fin dall’ideazione del progetto, era nato nel 1919 e di anni ne aveva 29.
Approfondisci la storia dei movimenti americani con il saggio a cura di Marta Gara scritto per Feltrinelli:
“Underground Press. La controcultura statunitense nelle collezioni della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli”
“Con questa pubblicazione viene presentata la collezione della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, che consente di entrare in diretto contatto con la voce del Movement in tutte le sue articolazioni: dalle elaborazioni della New Left e dai giornali sorti dall’iniziativa studentesca nei campus contro la guerra in Vietnam ai periodici del movimento di rivendicazione dei diritti della comunità afroamericana, dai fogli delle comunità hippie alla cultura psichedelica, dalla stampa femminista alle prime testate dei gruppi di attivisti omosessuali, dagli organi dei sindacati indipendenti di lavoratori di colore fino ai fogli dei GI dissidenti”.
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