Le immagini che seguono sono tratte dalla biblioteca di Fondazione Giangiacomo Feltrinelli: tra 1961 e 1962, le fotografie danno conto dei drammatici effetti dell’edificazione del Muro di Berlino.
Riflettere a trent’anni dal 9 novembre 1989 significa misurarsi con le domande che quella scena apriva. Ma significa anche chiedersi se in questi trenta anni siamo stati in grado – collettivamente in Europa – di dare una risposta soddisfacente a quelle domande.
Certo possiamo festeggiare quel crollo (la fine di un sistema oppressivo) ma resta la domanda: ci può bastare l’elemento celebrativo?
I sintomi di crisi dell’Europa di oggi, il fatto che complessivamente oggi sia aperta una battaglia culturale che vede l’ipotesi sovranista in crescita e l’ipotesi europeista in ritirata è chiaramente il segno politico di una sconfitta.
E tuttavia non basta chiedersi che cosa sia stato sconfitto. Per riuscire a pensare domani, per rispondere alle sfide poste oggi dal sentimento nazionalista – che è essenzialmente domanda di protezione da parte di un’opinione pubblica che avverte minacciata la propria quotidianità – occorre provare a misurarsi con le cose e con le questioni che in questi tre decenni sono state a lungo eluse.
Giustamente Timothy Garton Ash, tornando a riflettere su quanto scriveva «a caldo» trenta anni fa avendo ancora davanti le scene, le emozioni e le folle del novembre 1989, ha osservato come sarebbe sbagliato ritenere di aver sbagliato a celebrare gli avvenimenti in Europa centrale e in seguito nelle Repubbliche baltiche e nell’ex Unione Sovietica dopo il 1989 come grande trionfo della libertà, della democrazia, dell’Europa e dell’Occidente. È stato un trionfo, in ogni senso. Ma, ha anche aggiunto, l’errore è stato credere che fosse la nuova norma, la direzione in cui si muoveva la Storia. Ora rischiamo di commettere lo stesso errore, ma in senso opposto. Per concludere: il futuro trionfo dell’autoritarismo anti-liberale non è inevitabile più di quanto non lo fosse il futuro trionfo della democrazia liberale.
Indubbiamente. Mai dare una battaglia per persa, quando è ancora in corso. Tuttavia, il tema non consiste nel vincere una battaglia, bensì misurarsi con gli assi cartesiani, col palinsesto concettuale che in questi trenta anni hanno lavorato e che oggi vede i democratici e i socialdemocratici in difficoltà di fronte al sentimento che acquista credibilità e spazio pubblico.
La premessa è che oggi l’orizzonte democratico in Europa è privo di un progetto. L’Europa dal punto di vista della definizione e dei contenuti di un’agenda democratica, partecipativa e socialdemocratica appare un insieme di singole realtà politiche «locali» che non riescono a trovare una sintesi o non hanno volontà di fare sintesi. Spesso prive di un lessico comune (che invece è condiviso saldamente nel campo sovranista).
Questo per molte ragioni. Tra le tante qui ne indichiamo essenzialmente tre.
La prima
Pensare «Europa» significa pensare un sistema che si propone come uno spazio continentale. È interessante vedere quando nel XX secolo, ovvero in quali circostanze, il tema Europa entri nel lessico politico. È nello scenario di un continente completamente da ricostruire quale si ripresenta tra 1944 e 1945 che iniziano a circolare l’idea e l’immagine di Europa.
Non è un catechismo politico a dare spazio a quella parola – in breve non è il Manifesto di Ventotene – per quanto sia affascinate l’immagine che un’idea-forza di futuro nasca in un luogo sperduto del mondo, per opera di attori assolutamente marginali in quel momento.
Chi culturalmente fornisce il pacchetto consistente di elementi è uno storico. Il suo nome è Lucien Febvre. Europa è il tema del suo primo corso nell’autunno 1944, quando riapre l’università in una città finalmente libera e liberata che ha premura di pensare domani e di pensarlo per tutta l’Europa.
Quel pacchetto è interessante perché ci consegna non un sogno, ma le sfide al sogno e dunque le questioni e gli snodi che poi si sarebbe dovuto sciogliere per pensare futuro.
Il tema di partenza è lo smantellamento del mito europeo.
Il mito europeo a cui allude Febvre è quello di un’Europa compatta, non ibridata o non imbastardita e dunque per questo autentica. Un profilo geo-storico caratterizzato da uno spazio definito dove è interdetto lo spazio di accoglienza e sostanzialmente gerarchizzate le strutture di relazione sociale.
Saremmo indotti a ritenere che questa immagine Febvre la ascrivesse al reticolo culturale del progetto nazista e di nazificazione dell’Europa perseguito con le insorgenze collaborazioniste nel corso della Seconda guerra mondiale.
Così è infatti, ma anche sottolinea che solo rispondendo a questa domanda di identità dello spazio continentale europeo, «Europa» può ambire a essere non solo uno spazio, ma anche un attore politico rilevante capace di inaugurare una nuova stagione democratica. Diversamente, sembra dire Febvre, il destino è tornare a essere risucchiati in quel progetto (come indica Paul Hanebrink nel suo Uno spettro si aggira per l’Europa, 2019).
Dunque, Europa nel 1944 nasce come un “rimedio disperato” e come una sfida alla consuetudine.
Ma come si compia questo processo, con quali passaggi simbolici e politici si definisca questo Febvre non lo indica. È significativo (per certi aspetti sarebbe anche improprio che ce lo aspettassimo da lui). Ma è un fatto che dopo la sua domanda non risolta è rimasta inevasa. È proprio lì che arena il sogno europeo che fino agli anni ’90 appunto è soprattutto sogno e non progetto.
La seconda
Porre una dimensione progettuale significa dire che Europa contemporaneamente non è uno spazio chiuso, ma ha un confine. Significa avere chiaro dove si situi il centro (in quali simboli, oggetti, concetti, luoghi di memoria) e dove finisca quello spazio continentale.
Le due questioni non vanno separate perché sono entrambe funzionali al mantenimento del parallelogramma delle forze interne naturalmente confliggenti, ma sostenute da un sistema di reciprocità o interesse.
In breve: qualsiasi struttura che si pensi “continente” (gli Stati Uniti sono questo, come la Russia, del resto) ha un luogo che definisce le sue politiche e un luogo che definisce la sua identità. Questo secondo luogo, di solito, si configura nei luoghi del confine. È alla frontiera, infatti, che si definiscono i punti di non contrattazione della propria identità.
La crisi dell’Europa di oggi sta in questi due punti non chiariti e non risolti.
L’Europa pre’89, viceversa, li aveva ben chiari. L’investimento sull’asse franco-tedesco era contemporaneamente un modo per risolverli nello stesso spazio: l’Europa si costruiva a partire dalla definizione di un centro forte, ma allo stesso tempo si definiva su una linea di confine che poteva anche estendersi a Est ma che si localizzava lungo la linea dell’Elba e quella era il confine che non poteva arretrare.
Si può dire lo stesso dell’Europa del 2019? Lo scontro tra Est Europa e vecchia Europa dei 6 non è anche uno scontro sulla non riscrittura di questi due criteri?
Come possono essere riformulati?
La terza
Il processo di unificazione dell’Europa è avvenuto sulla base di un fascino per la società libera fondata sul principio individualistico, sul rapporto tra individuo e collettività. In breve su una riformulazione del progetto liberale in versione liberal-democratica dove contava soprattutto la sfera della persona in connessione con le politiche pubbliche, ma dove era fondamentale la percezione che tramontavano i corporativismi sociali e culturali. L’idea era che modernizzazione e rottura dei vincoli corporativi di appartenenza e rappresentanza condensavano l’ipotesi fondativa di futuro.
In questa dimensione si strutturavano lo scenario e i luoghi in cui si formavano tanto le idee come i vocabolari collettivi e si costruivano gli strumenti per produrre idea di Europa.
Chiediamoci:
- È la stessa geografia che abbiamo oggi di fronte?
- Qual è la geografia culturale dell’Europa nel 2019?
- Dove e chi forma il suo vocabolario o i suoi vocabolari in conflitto?
- Sono nate oppure no nuove generazioni di formatori dell’idea e dell’immagine d’Europa in questi 30 anni?
- Dove sono?
Provare a misurarsi anche con alcune di queste questioni significa riprendere a pensare progettualmente Europa e farlo con tutti gli attori che condividano un progetto e siano disponibili a ripensare un patto.
Non c’è da festeggiare. C’è da lavorare: parecchio e con una certa fretta. Perché ancora una volta, come molte altre volte in politica, il tempo è una risorsa scarsa.