Non siamo mai stati così insoddisfatti della democrazia. È la conclusione di un’indagine di opinione realizzata negli ultimi anni dal Centre for the Future of Democracy dell’Università di Cambridge, che ha messo insieme dati provenienti da più di 150 nazioni. Negli ultimi 25 anni una persona su dieci in tutto il mondo ha cambiato in peggio la sua opinione sulla capacità della democrazia di produrre risultati politici desiderabili.
Preciso: intendo con democrazia quel regime politico che riconosce alle minoranze il diritto di interferire sulle maggioranze e dove le maggioranze sanno che la legittimità del potere che esse esercitano è direttamente conseguente al riconoscimento dei diritti delle minoranze.
La democrazia, detto altrimenti, non è quel sistema dove chi vince governa fino alla prossima tornata elettorale e basta, bensì quel sistema politico dove chi governa ha come regola prima la consapevolezza che il proprio potere è limitato, regolato. In altre parole il suo potere di governo non è dominio.

Il quadro che abbiamo di fronte mi sembra radicalmente diverso. La sensazione che ho è che se si facesse un’indagine sul totalitarismo come sistema di governo, probabilmente la percentuale di sostenitori sarebbe esigua, ma se si fa un’analisi delle mentalità totalitaria, ovvero di ciò che dopo «resta attaccato» nel nostro senso comune, probabilmente ne verrebbero fuori numeri molto diversi.
Vorrei partire da quella forza della mentalità totalitaria, perché lì, a mio avviso, sta un indicatore significativo di chi siamo noi oggi, qui, in Italia (e, forse, non solo, qui, in Italia).
Pongo tre domande.
1. quanto peso ha la paura tanto nel sogno del regime politico che auspichiamo come nella critica a quello vigente?
2. Quella paura indica una richiesta di sicurezza o il timore dell’ignoto?
3. Quella richiesta si fonda sui sentimenti o sui ragionamenti?

Primo percorso. Sabato 25 gennaio su “Robinson”, il supplemento culturale settimanale di “la Repubblica”, Maurizio Maggiani, invocando il diritto all’odio (Odio. L’arroganza, l’ipocrisia, la menzogna, l’apericena), ha tenuto a distinguere la legittimità di odiare il peccato ma non il peccatore. È una distinzione interessante anche se quel testo era troppo sintetico e fulminante, ragion per cui non mi dispiacerebbe se Maurizio Maggiani tornasse con più spazio a riflettervi. Forse provando a connettere odio e paura. Perché indubbiamente l’odio non è solo rifiuto di ciò che non ci piace e, forse, andrebbe affrontato come risorsa per dare legittimazione alle paure, trasformandole in sentimento virtuoso con cui costruire consenso.
La paura è oggi un sentimento diffuso. Non è sempre stato così. Per esempio, per quanto noi oggi parliamo degli anni ’70 come anni terribili, la geografia della paura riguardava aree del Paese molto più circoscritte rispetto a quelle attuali. Mi chiedo: quanto i partiti politici di massa contribuivano a contenere quella paura? Il fatto che non ci siano quelle strutture intermedie fa sì che apparentemente quel rapporto col potere sia diretto, ma in realtà l’emozione dell’incontro col «capo» non avviene in regime di confidenza, ma in pratica di reverenza. L’offerta al “capo” è affidamento, richiesta di rispondere a una paura.

Secondo percorso. Il totalitarismo è una risposta alla domanda di sicurezza o è un’assenza di responsabilità e senso critico del singolo individuo? Partiamo dalla conclusione del primo percorso e chiediamoci: oggi ci sono sempre meno figure politiche capaci di esprimere leadership, in compenso, coloro che la esprimono esercitano un potere di fascino su una quantità considerevole di individui.
È anche per questo che abbiamo più paura? Quel fascino esprime una domanda di protezione, ma non chiede crescita. Chiede tutele, non più competenze. Chiede che la politica da «guardiano di notte» si trasformi in «guardiano di giorno».
Ne consegue che l’offerta politica non mira a essere più responsabili, ma maggiormente protetti. Si potrebbe osservare come niente sia simbolicamente più significativo di questo passaggio della metamorfosi che hanno avuto i muri in età contemporanea (su questo ha scritto con acutezza lo storico Claude Quétel nel suo Muri, Bollati Boringhieri). Se a lungo il muro era la linea di confine costruita perché fosse impedito a qualcuno di uscire e cercare la libertà, oggi muro è la linea di confine per impedire a qualcuno di entrare. Non c’è un’inversione dei segni ma c’è una nuova piattaforma politica che modifica strutturalmente il “bisogno” di muri.
Se prima i muri erano contro i governati, ora i muri si presentano come sollievo, non come blocco. Sono segno di garanzia e non di autoritarismo.

Terzo percorso. Quanto la comunicazione ha influenzato e può influenzare un’ascesa totalitaria? Molto perché molto oggi dipende non tanto da che cosa si dice, bensì dallo storytelling che si fa ovvero dal senso di narrazione con cui si racconta il nostro presente, ma anche di quanto ci accontentiamo per passare da una storia particolare, o da poche storie narrate, alla regola dell’agire pubblico e della storia.
Percorso dove prima di tutto conta la curiosità, ma soprattutto l’insoddisfazione per le sintesi rapide. Perché più storie, come sostiene Chimamanda Ngozi Adichie, significa consapevolezza maggiore che le persone, i gruppi umani, non sono una sola storia, ma molte cose e che il fascino attrattivo per una storia unica, di una storia che diventa subito canone è il primo passo per la costruzione degli stereotipi. Ovvero: una realtà che vive soprattutto di sentimenti e di giochi di opposti e poco di ragionamenti.

Ma se sono gli stereotipi a prevalere, se i sentimenti dominano sui ragionamenti, allora dobbiamo anche considerare un fattore ulteriore, proprio di questo tempo: il progressivo impoverimento del linguaggio. La dimensione sempre più ristretta di un vocabolario pubblico che, proprio perché fondato sulla paura, non articola analisi, ma propone sempre più spesso slogan (un tema su cui è tornata a insistere recentemente Olga Tokarczuk, Premio Nobel 2018 per la letteratura).
Un linguaggio che si adagia su ciò che già si sa, che non vuole sapere di più, che è facilmente attratto dallo stereotipo, dalla sete di ricollocare le novità in ciò che già si sa.
Anche questo è un pessimo segnale. Perché ha come fondamento l’indifferenza e la diffidenza. Due sentimenti che giustamente Agnes Heller (nel suo Il male radicale, Castelvecchi) individuava come veicolo nel tragitto verso i totalitarismi.

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