Tra le conseguenze di una pandemia globale può esserci tornare a riguardare il luogo da cui si proviene a una diversa distanza: quella messa dal tempo nel decennio tra i 20 e i 30 anni di crescita personale e professionale in un’altra città. Un decennio coinciso con l’ultima stagione politica di Napoli.
Mi sono staccata da Napoli per terminare gli studi di urbanistica a Milano pochi mesi prima della campagna elettorale cittadina che al grido “Scassiamo tutto!” anticipò l’ondata populista poi riversatasi sull’intero Paese, per reazione alla chiusura delle élite politiche e alla crisi globale del 2008, localmente complicata da quella dei rifiuti. Sono tornata ad abitarci e farci ricerca nell’ultimo anno del governo arancione, avvilito dalla crisi finanziaria che progressivamente ha portato a dimezzare i dipendenti e decimare i servizi comunali.
È da questa prospettiva che scrivo, alla soglia delle nuove elezioni, ripercorrendo gli snodi del mio ritorno a Napoli per condurre una ricerca-azione sulle nuove generazioni urbane, attraverso ciò che ho osservato, vissuto e (ri)scoperto .
Arrivare
Nei decenni che ho trascorso a Napoli ho imparato cose istruttive, a proposito di radici.
Ad esempio come l’esaltazione di un’identità comune nasconda divisioni feroci,
che fanno di Napoli la città più classista e razzista d’Italia.
Un popolo basso che è riuscito a insediarsi sulle colline e a trasformarsi nella più tremenda piccola borghesia
guarda con paura e disprezzo quelli che sono rimasti giù,
dei quali ha in genere conservato e amplificato le peggiori caratteristiche.
(Carla Melazzini, Insegnare al Principe di Danimarca, Sellerio Editore Palermo, 2012)
L’istinto scomodo di andare a guardare nel solco delle “divisioni feroci” della mia città, già rilevate da Carla Melazzini dopo pagine di fulgente passione critica su Napoli (sua città d’adozione e non di nascita), ha guidato il progetto “Border[scape]s”[1], che ha segnato il mio ritorno a Napoli.
Volevo star vicina a coloro che hanno oggi gli stessi o pochi anni in meno di quanti ne avevo io quando ho lasciato quella che continua ad essere una delle città più giovani d’Europa, con un’età media più bassa delle altre metropoli italiane, ma anche indici di segregazione residenziale tra i più elevati del Paese (Pfirsch 2016), un mercato del lavoro asfittico, e una diffusa povertà. In particolare, mi interessavano i ragazzi di seconda generazione o a background migratorio sulla base di un’osservazione condotta nel tempo e confermata dai dati: Napoli è divenuta nello scorso decennio, da zona di transito, luogo di insediamento stabile per i migranti, con più di 43 mila stranieri residenti, di cui il 14% sono minori (Strozza 2016).
Solo nel Comune di Napoli abitano oltre 20 nazionalità differenti, con un progressivo aumento delle seconde generazioni che fa potenzialmente di Napoli un laboratorio di cittadinanza rinnovata e aperta, non meno di altre grandi città italiane. L’hanno compreso alcune attive realtà del pubblico, del terzo settore e dell’imprenditoria sociale, come la Dedalus, che portano avanti progetti di scambio interculturale nella prospettiva della valorizzazione delle diversità.
Quello che manca è una visione organica, che individui il tema del multiculturalismo giovanile come un punto dell’agenda politica, in una città che riflette un Paese che cambia.
Ciò accade per varie ragioni, compresa una certa disattenzione giustificata con la latente retorica del “Napule è mille culure”, che finiscono spesso per diventare un’unica tinta, e fosca, per la popolazione giovane e multietnica che abita la città.
È il principale dato emerso dai laboratori settimanali di “Border[scape]s” con 23 giovani delle “nuove generazioni“, provenienti da una dozzina di paesi diversi e residenti a Napoli: una città che amano ma che spesso non vedono altra alternativa che lasciare, sentendosene in vario modo respinti.
A 18-20 anni hanno già un vissuto importante alle spalle, leggono la realtà con una lucidità che fa arrossire gli adulti, intrattengono relazioni con altri paesi per ragioni familiari e parlano in media 3 lingue a testa, ma sollevano tutti un problema di visibilità, ancor prima che di rappresentanza.
Le loro testimonianze mettono in discussione l’idea di “Napoli città ospitale e accogliente” e aggiungono un’ulteriore sfaccettatura alle condizioni scandalose della gioventù della città cui fanno scudo solo gli sforzi quotidiani di operatori sociali, attivisti, educatori, artisti e creativi che nelle varie periferie di Napoli si adoperano per coltivare “la capacità di aspirare” dei ragazzi, come l’Associazione Quartieri Spagnoli, Chi rom…e Chi no di Scampia, il progetto Arrevuoto e i Maestri di Strada, per citare alcune delle realtà più consolidate e intelligenti.
Se i giovani a Napoli sono spesso traditi da una sostanziale scarsità di opportunità, la generazione di quelli a background migratorio è semplicemente invisibile nelle rappresentazioni collettive, quasi non sedesse al fianco degli altri nei banchi di scuola o non si aggirasse per le strade della città mescolando il cingalese, il romanì e il nigeriano al napoletano.
Parafrasando Ambrosini (2005) “interrogarsi sul futuro dei giovani di origine straniera significa interrogarsi sul futuro del nostro paese”. Non considerare, dall’alto, oltre che dal basso, i sogni e bisogni delle “nuove generazioni” significa semplicemente non porsi il problema politico del futuro.
Abitare
La città formicolava di oro e di insetti.
(Anna Maria Ortese, Corpo Celeste, Attraversando un paese sconosciuto, Adelphi, 1997)
Quando nell’estate del 2011 De Magistris divenne sindaco di Napoli, la stampa americana predisse un’imminente svolta legalitaria e di sviluppo dell’immagine. Ed effettivamente le immagini dei palazzi di rifiuti che avevano travolto la fine del governo Iervolino sono state soppiantate in breve da quelle di un centro storico – fino agli anni Novanta teatro di faide camorristiche e regolato dal coprifuoco – pullulante di turisti, con stallo del traffico pedonale nel periodo natalizio.
Amici e colleghi che non avevano mai visitato la città si sono uniti in questi anni alle file di turisti che tra il 2010 e il 2018 ha fatto registrare a Napoli il più alto incremento turistico d’Italia, complici le offerte vantaggiose delle compagnie di viaggio. La città è divenuta, da breve sosta verso destinazioni più amene e sicure (le isole, la penisola sorrentina, la costiera amalfitana), un luogo in cui fermarsi qualche giorno, per godere la vita dei vicoli, lo straordinario patrimonio artistico-culturale, e una speciale ricettività turistica.
Nei miei vari rientri, ho visto i “bassi” trasformarsi in folkloristici b&b, gli appartamenti popolari venire svenduti alle piattaforme ricettive come airb&b e le prove strumentali nei liutai di via San Sebastiano (storica strada della musica) essere soppiantate dallo sfrigolare delle friggitorie e dei locali per lo street food spuntati come funghi, non scollegati dalla necessità di riciclaggio degli introiti criminali nel frattempo tutt’altro che spariti – come le varie Gomorre prodotte in questi anni, ci hanno ricordato.
Tutto ciò ha comportato un aumento del costo degli affitti del 10% solo tra il 2018 e il 2019, secondo i dati raccolti dalla rete Sud Europa di fronte alla turistificazione (Set).
Condivido con Giovanni Laino (Il palazzo delle donne sole: dinamiche urbane in un condominio napoletano 2016 – Franco Angeli) che l’applicazione della categoria di gentrification al centro storico di Napoli non sia del tutto appropriata, giacché anche una osservazione superficiale dimostra la resistenza di una forma di meticciato per cui convivono ceti popolari e turisti.
Tuttavia, sussiste un problema di governance del turismo e dell’abitare, entrambi aggravati dalle carenze nel trasporto locale e metropolitano.
Le “stazioni dell’arte” della metro urbana 1 – con cantieri aperti per decenni valsi la famosa battuta di un comico locale se la metropolitana la si stesse facendo o cercando – affidate ad architetti di grido internazionale e foriere di premi prestigiosi, sono più spesso magnifici musei d’arte contemporanea che nodi di interscambio. E la pagina satirica “Circumvesuviana. Guida alle soppressioni e ai misteri irrisolti” su FB conforta appena le migliaia di pendolari della ferrovia circumversuviana (estesa per 140 km nella provincia di Napoli) dalle proprie odissee quotidiane, mentre i turisti restano in balia di collegamenti, indicazioni e trasporti inesistenti.
Occorre ri-orientare l’occasione di apertura, scambio e circolazione fornita dal turismo in una regione urbana di straordinaria bellezza verso una visione metropolitana di vivibilità territoriale ed ecologie risanate (riprendendo il meglio dell’attivismo ambientalista napoletano), a partire da chi abita e difende la città. In questo senso, direzioni importanti, solo apparentemente sconnesse, sono offerte da: i beni comuni – tra le punte virtuose dell’amministrazione De Magistris, con esperienze interessanti come quelle dell’Asilo – da inserire in un quadro che uniformi, secondo criteri di giustizia sociale, la molteplicità di beni occupati e spazi culturali che in vario modo producono innovazione urbana; e gli “ex-qualcosa”, ossia il centinaio di complessi ed edifici non utilizzati, da inserire, al di là dei singoli percorsi, in un unico programma di lungo termine di servizi e spazi pubblici (compresi quelli verdi, assai carenti in centro) che vada a vantaggio dell’intera città.
Poter restare
E fuggendo Napoli, per inseguire un Nord mitico, […] venivano a loro volta inseguiti da Napoli, come da una segreta ossessione. Ché Napoli usa seguire i suoi concittadini dovunque, come un’ombra, se si trasferiscono altrove…. Così Napoli, dove è così difficile vivere e che invoglia tanto a partire, che è così difficile abbandonare e che costringe sempre a tornare, diventa, più di molti altri, il luogo emblematico di una generale condizione umana nel nostro tempo: trovarsi su un inabitabile pianeta, ma sapere che è l’unico dove per ora possiamo star di casa.
(Fabrizia Ramondino, Star di casa, Garzanti, Milano, 1991)
Come me, la pandemia ha riportato a Napoli molti 30-40enni formatisi in altri luoghi secondo un’idea d’Europa e di mondo che, in quella capitale del Sud che Napoli dovrebbe interpretare, sembra perdere oggi molte delle sue coordinate.
“Giovani adulti” laureati, addottorati e masterizzati col desiderio di restare e restituire il bagaglio di esperienze, prospettive, competenze maturate altrove.
Si scontrano con risposte deludenti e contraddizioni strutturali, rese ancora più avvilenti dalla retorica del “Vabbè Napoli è diversa” (Dines, 2015) che insabbia cause e fattori di disfunzioni storicizzate, tutt’altro che eccezionali.
Senza disconoscere che ciascun presente è figlio della propria storia peculiare – cosa che vale per le difficoltà di Napoli come di qualsiasi altra città – l’autoassoluzione barricadera al posto di una sana auto-critica e la cacofonia di slogan polemici che assorda un fare illuminato, radicato nei contesti e capace di collegare i territori, che pure esiste rischiano di lasciare la città ripiegata su se stessa.
Napoli è capace di forme e processi spontanei di organizzazione anche in assenza di un quadro direttivo, come dimostrano non soltanto le varie realtà attive nel sociale ma anche l’accelerazione d’impresa superiore alla media italiana registrata dal rapporto Giorgio Rota del 2016, il 15% della quale condotto da giovani imprenditori.
Perché tutto questo non vada sprecato, occorre una cultura e un lavoro sapiente di connessione, che si preoccupi di unire le diverse forze propulsive urbane, al di là dei molti confini sociali e separazioni interni ed esterni alla città, per rilanciarla in un’ottica metropolitana, nazionale e internazionale, con una capacità di visione e azione politica improntata al pluralismo. Per essere all’altezza della vitalità che, malgrado tutto, Napoli non ha mai smesso di esprimere.
[1] Il progetto di ricerca, laboratori e documentario “Border[scape]s”, nato nella cornice del programma di scambio postdottorale DAAD tra l’Istituto di Geografia dell’Università di Amburgo e il Diarch dell’Università Federico II di Napoli, è stato prodotto e ospitato dal Madre – museo d’arte contemporanea Donnaregina e ha goduto della collaborazione con i preziosi professionisti delle associazioni Chi rom…e chi no, Less Onlus e Trerrote.