Il teatro delle macchine

rotor

Macchina” designa una visione e un modo di classificare il rapporto tra natura e essere umano dove si sovrappongono lo strumento, il sistema di relazioni, il modo di produrre e, infine, le condizioni generali del vivere quotidiano. Macchina, perciò, è molte cose: non solo uno strumento o un mezzo per fare cose, ma l’ambiente all’interno del quale si organizza la vita.

Il sociologo americano Lewis Mumford definisce la nostra era come “epoca delle macchine” e precisa come “l’orologio, e non la macchina a vapore [sia] lo strumento basilare della moderna èra industriale” (Technics and Civilization, 1934) a conferma che la macchina, più che un oggetto, è una condizione. “Se ci si chiedesse di caratterizzare questa età, che è la nostra, con qualche epiteto unico, saremmo tentati di chiamarla non Età Eroica, Religiosa, Filosofica o Morale, ma l’Età Meccanica, sopra ogni altra. È l’Età del Macchinismo in tutti i significati della parola, esterno e interno; l’Età che con tutto il suo potere indiviso, fa progredire, insegna e pratica la grande arte di adattare i mezzi allo scopo. Nulla si fa ora direttamente, a mano; tutto colla regola e colla combinazione calcolata”. Non è un’affermazione di un emarginato dei nostri giorni, di un attore che la macchina ha reso superfluo, comunque solo “un costo”. È Thomas Carlyle che scrive. Il testo si intitola Signs of the Times ed esce sulla “Edinburgh Review” nel giugno 1829.

Due secoli dopo il rapporto inquieto e conflittuale con le macchine, tra individuo e macchina, è radicalmente trasformato. In mezzo, come spesso capita nella storia, sta un disastro naturale. È il 1965: un guasto della rete elettrica degli Stati Uniti, pur originato da cause del tutto marginali, genera un black out per molte ore in un territorio vastissimo che comprende parte degli Stati Uniti e del Canada e paralizza le attività di milioni di persone. La macchina, osserva Günther Anders in un testo dedicato alla metamorfosi delle macchine proprio riflettendo su quell’incidente tecnico (L’uomo è antiquato. 2. La terza rivoluzione industriale, pp. 105-115) non è più un singolo strumento, limitato nello spazio, è un complesso. Da hardware si trasforma in software.

Ogni macchina, espandendosi, tenderà a inglobare, a essere inglobata o a fondersi con altre macchine, pertanto il loro numero è destinato a diminuire. Ogni macchina, per il processo di agglomerazione appena descritto, diverrà un pezzo della nuova macchina e, infine, sarà declassata da macchina a pezzo di macchina.  L’unica. Nella riflessione di Anders, risuona un allarme già segnalato dal vecchio Spinoza (Etica, parte prima, Prop. VIII), ovvero che la macchina si sostituisca a Dio e che, proprio come Dio, non possa essere finita, ma debba necessariamente essere infinita. Ovvero: che essa, da strumento di liberazione dalla fatica, diventi l’unico attore sulla scena, fino a espellere o a marginalizzare chi “le ronza intorno”, trasformando tutto ciò che è lavoro vivo in comparsa, comunque in accessorio.

David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

Condividi
pagina 12523\