Quelli che rimangono

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L’umanità che sopravvive a un cambiamento radicale non è mai la stessa di prima. Si porta dietro l’evocazione del passato, testimonia della propria inadeguatezza a prendere le misure col nuovo presente, prova a tentoni a dare forma rimodulata a un futuro possibile. Anche per questo talvolta confonde le sfide che ha di fronte con un “confortante ritorno al passato”. Scrive Michihiko Hachiya, nel suo Diaro di Hiroshima, che dopo la bomba la città riesce a sopravvivere solo confermando la gerarchia del giorno prima della bomba. Perciò l’ascolto della voce dell’imperatore lo conforta. La convinzione è che, nonostante questa novità, nulla sia cambiato. Elias Canetti, proprio a partire dalle pagine di Michihiko Hachiya, sottolinea come quella sia una sensazione falsa: non c’è un nuovo inizio, ma solo si riconosce nel presente una traccia che consente di “ritrovare” il passato. Per capire quel passaggio dovremo cercare un altro esempio in grado di esprimere la condizione di “quelli che rimangono”. Non diverso da quello di Michihiko Hachiya doveva essere il sentimento che le Scritture attribuiscono a Noè e a tutti gli ospiti dell’arca, quando uscirono di nuovo da quella casa galleggiante. Dovettero cambiare prospettiva perché lì accadde qualcosa che modificò radicalmente il loro presente e la loro idea di futuro. Quella massa entra nell’arca e già questo li colloca nel dopo. La condizione di sopravvissuti è già nel fatto di entrare nell’arca, prima del diluvio. Questo poteva far pensare che a evento finito fosse sufficiente uscire e riprendere la vita di prima. Non sarà così.

Riconsideriamo quella sequenza.

“Il Signore vide che la malvagità dell’uomo nella terra era grande e che ogni creazione del pensiero dell’animo di lui era costantemente soltanto male. Il signore si pentì di aver fatto l’uomo sulla terra e se ne addolorò in cuore. Il Signore disse: ‘Distruggerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato dall’uomo fino ai quadrupedi, agli uccelli del cielo, perché mi sono pentito di averli fatti’. Noè trovo grazia agli occhi del Signore.” (Gn, 6, 5-8)

Così inizia la vicenda della costruzione dell’arca, poi del diluvio e poi della nuova rinascita. Il diluvio, tuttavia, se è condizione necessaria, non è sufficiente perché si dia un nuovo inizio. Tutti i salvati dell’arca escono dall’arca. Noè edifica un altare e il Signore accetta l’omaggio. Ma il nuovo inizio non è dato dal riconoscimento dell’omaggio da parte di Dio. Perché si dia una chance di futuro, infatti, non è sufficiente ricreare le condizioni precedenti il diluvio, e nemmeno rendere omaggio al Signore. Il mondo ricomincia sulla base di un patto che il Signore sottoscrive con Noè, un patto nel quale si impongono nuove regole che vincolano tutti i contraenti a prescindere dalla fede e dalla nazionalità. Quelle regole segnano la differenza tra prima e dopo il diluvio. Rispondono a due principi: 1) parlano a tutti e sono vincolanti per tutti; 2) stabiliscono che il futuro è una scommessa sub judice.

Il nostro futuro immediato ci obbliga da oggi ad agire. Come Noè, forse alcuni pensano che sia sufficiente contenere delle abitudini, senza modificare strutturalmente il nostro comportamento. Non è così. Perché si dia un’ipotesi di futuro, non solo plausibile, ma possibile, occorre sottoscrivere un patto, vincolante, senza esclusi, dunque che parli a tutti e sia normativo per tutti. La discussione che mette al centro i temi dei Sustainable Development Goals (SDG’s), a partire dalle preoccupazioni che in queste ore circolano al vertice di Parigi, dicono che quello non è che l’inizio. Il nostro domani non è un tempo infinito, ma contenuto (riguarda come arriveremo al 2030), perché il futuro è un’ipoteca che ci obbliga da oggi ad agire. Come per il nostro lontano antenato, anche per noi il futuro è una scommessa sub judice. Discende da un patto vincolante, ma soprattutto dalla nostra determinazione ad accoglierlo. Il futuro sarà possibile se noi lo vorremo.

David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

02/12/2015

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