La discontinuità come laboratorio del possibile

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Scoprire il futuro, investire su domani, è forse la chiave dell’evoluzione umana. Quando, alcune migliaia di secoli fa, gli ominidi passano dall’uso degli arnesi, alla loro conservazione e produzione per l’avvenire, inaugurano una nuova condizione: da quel momento l’essere umano è in grado di accumulare conoscenze, di cambiare comportamento in base all’esperienza, di formulare progetti, di dominare il ritmo di adattamento all’ambiente ed è sempre più in grado di modificarlo.

Questa condizione ha un fascino: l’idea che si possa stabilire una dimensione unilineare della storia, secondo stadi che si succedono necessariamente. La futurologia è una delle conseguenze di questa visione: il futuro è prevedibile, misurabile e risponde a una legge immutabile del progresso materiale. L’uomo ha ben poca influenza sull’avvenire in generale e, in particolare, sul proprio.

Qualcosa oggi è cambiato e il futuro prossimo tuttavia non è più così prevedibile. Ma questo anziché produrre distacco, delusione, o disincanto, origina un plus di immaginazione e di definizione del futuro che vogliamo per noi. Il futuro che vogliamo diventa contemporaneamente diverso e altro rispetto al passato.

Ciò che entra in questione oggi è una profonda trasformazione dell’idea di discontinuità. A lungo, a partire dalle soglie della modernità, abbiamo pensato la discontinuità come riscrittura del quadro dato, come irruzione nella piazza, nell’agorà, di nuove regole che modificavano la vita ideale e quella sociale.

L’età delle rivoluzione inaugurata dalla presa di possesso della parola dei  semplici cittadini e degli ufficiali dell’esercito di Cromwell a Putney nell’autunno 1647, poi di Franklin e di Jefferson, di Danton e Robespierre, e giù fino a Steve Jobs, ha prodotto una forma di futuro. Il futuro è stato pensato, perseguito e rincorso come estensione di un unico modello e come raggiungimento dell’uniforme.

L’idea di discontinuità che oggi ha iniziato a comparire risponde a una logica diversa. Ciò che entra in gioco è un legame tra locale e globale non fondato sulla uniformità, ma anzi sulla coabitazione di scene diverse. Anche per questo la crisi attuale non verrà assorbita da una fuga in avanti che consiste nel produrre la stessa cosa.

Il futuro possibile si ha se maturiamo un’idea d’incompiutezza, progettandolo sull’onda dell’entusiasmo. Futuro non è più un solo percorso. È, invece, la dimensione delle possibilità e il laboratorio per tentare di dare un volto a una scommessa.

A lungo utopia è stata la  costruzione di un mondo perfetto. Ma utopia non è sogno e  non è la costruzione di un’armonia. È sfida a ciò che oggi avvertiamo come vincolo per dare una nuova chance al nostro presente. Utopia non è un modo perfetto, è un mondo migliore o, almeno, meno terribile.

David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli

 

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