Come non perdere l’anima nel mondo che cambia
L’identità non è data una volta per tutte. Ma il senso comune vuole che essa non cambi mai. Per questo le mutazioni sono vissute, rappresentate e memorizzate come “lacerazioni” rispetto proprio al passato, dunque come tradimento di se stessi.
Allo stesso tempo, la mutazione è percepita come una trasformazione che propone una realtà nuova, irriconoscibile, estranea rispetto a ciò che la precedeva: un momento di rottura il cui effetto è sradicare profondamente la continuità degli individui, dei gruppi umani, delle società complesse, costringendoli a innescare un cambiamento o a resistervi con tutte le loro forze.
Da questo punto di vista, la mutazione può essere uno dei tanti
volti in cui si presenta la “fine del mondo”: non il sovvertimento materiale della realtà, ma lo sconvolgimento di ciò che il senso comune presupponeva come vero e strutturale nel proprio tempo. La mutazione può essere tanto profonda da generare in coloro che la vivono la sensazione di essere irrimediabilmente fuori dal tempo, marginabili, inutili, scartabili, proiettati in una nuova condizione totalmente “altra”.
Cambiamento o resistenza, dunque. Nel primo caso, il soggetto ripensa e in parte riscrive il setting di ciò che include ogni volta che pronuncia la parola identità. Identità non è un’icona e mutazione non è una “tentazione diabolica”.
Identità e mutazione coabitano. L’identità è fatta di cose che si mantengono, ma anche di innesti costanti che mutano il composto interiore, culturale ed emozionale di ciascuno, aspetti che si combinano permettendo agli individui di riconoscersi e ritrovarsi. La mutazione è il risultato finale di quel percorso. Percorso che una volta chiuso si riapre. Perché appunto niente è “per sempre”.
Nel secondo caso, si ha a che fare con altri sentimenti e altre emozioni. Per esempio, la caparbietà con la quale ci si a oppone alla mutazione, la si contrasta, arrivando a considerarla il proprio nemico. Condizione, quest’ultima che insieme alla “furia” evoca la “mestizia”, il sentirsi “fuori tempo”.
Non è sempre così. Le storie di caparbietà testimoniano anche di una dura battaglia per mantenere dei margini di discussione, per riaprirli, favorire la costruzione di sensibilità che altrimenti avrebbero scarse possibilità di essere, ancor prima che di essere accolte e conosciute. Senza dimenticare un aspetto: è in forza della caparbietà, della decisione di muoversi in direzione ostinata e contraria, che acquista spazio e legittimità un’agenda di temi che obbliga a ritornare a pensare.
A poche settimane dal quarantesimo anniversario della sua morte, forse non è improprio riconsiderare anche da questo lato una voce pubblica come quella di Pier Paolo Pasolini.
Pasolini probabilmente non è stato solo il segno del rifiuto, ma ha rappresentato una figura eccentrica nella storia della cultura del Novecento. Nella sua “lezione civile” conta soprattutto l’esercizio costante della domanda. Condizione in cui l’esercizio della parola non è un inutile sfoggio di sapere, ma un modo di stringere da vicino il reale, trovare il gusto di sfidarlo. E allo stesso tempo di essere consapevoli che cambiare si può, e che un modo per dimostrarlo è impegnarsi. Per non perdersi, rinnovarsi e ritrovarsi. E dunque, riconoscersi.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli