Ars technica. La tecnologia come forma di vita
Se tecnologia ci appare come un dato oggettivo fissato in un sistema, tecnica ci appare più un dato empirico. “Avere una tecnica” spesso rinvia a possedere una qualità del fare costruita col tempo, personale, quasi un’“eccellenza”, non cedibile, o che si cede malvolentieri (intendendo con questo gesto la perdita di una parte di sé) che contrasta con un sapere oggettivo perciò “non personale”, “alla portata di tutti”.
Far bene il proprio lavoro, e dunque dimostrare di avere una tecnica, è un modo di rivendicare la dignità di sé, un modo per dimostrare a se stessi di non essere una cosa. Vale soprattutto nella condizione di schiavitù quando la richiesta non è mai la qualità, ma sempre la quantità.
Dunque “possedere tecnica” ha a che fare con “lavoro”, o meglio con la rivendicazione di “lavoro di qualità”. Questione che ha molto a che vedere con il “nostro” futuro prossimo, di ciò che sembra delineare il lavoro nell’epoca di una possibile jobless Society.
Rivendicare il lavoro apre un doppio percorso: indietro, verso il passato, e avanti in merito alle sfide che il presente pone al termine del ciclo dell’uomo macchina ovvero del lavoro taylorista. In entrambi i casi le mani costituiscono un elemento su cui concentrarsi.
Considero il primo caso.
Quando nel 1751 esce il primo volume dell’Encyclopédie, la tavola del sistema figurato delle conoscenze umane abbatte la ripartizione che sanciva tradizionalmente la dominanza delle arti “liberali” su quelle “meccaniche”. Proprio nella voce “art” Diderot spiegherà l’origine delle arti “nell’industria umana applicata alle produzioni della natura”. Questa fonte comune delle scienze e delle arti successivamente si biforca in un’attività speculativa che “riguarda la conoscenza inoperativa delle regole dell’arte” e in una funzione pratica (“l’uso abituale e non ponderato delle medesime regole”).
Nel disegno di Diderot risultano entrambe indispensabili. Non solo. Esaminando i vari effetti delle arti Diderot introduce, inoltre, un ulteriore elemento di attenzione, distinguendo tra quelle attività che impegnano fondamentalmente l’uso della mano e quelle che concentrano l’esercizio della riflessione astratta.
La mano così riacquista la sua centralità nella nuova immagine antropologica composta e proposta dagli illuministi.
Collochiamoci alla fine di quel ciclo, agli effetti indotti dalla crisi del fordismo. In altre parole, ora. È Richard Sennett che nel suo L’uomo artigiano (Feltrinelli) ha proposto alcuni temi rilevanti in questa direzione. Non solo rispetto all’orgoglio del saper fare, ma anche alla qualità del suo fare, al fine di fare bene.
Il tema della mano ritorna nella riflessione sulla qualità del lavoro, sulla qualità del prodotto. Questo risultato dipende da vari fattori, in gran parte determinati dal fattore umano. Un fattore a lungo trascurato perché trasferito nella macchina.
La qualità del lavoro dipende dalla definizione di una filosofia del gruppo di riferimento. In termini di coesione, ma anche crescita professionale. Si crea coesione se si condividono le competenze, ovvero se si agisce in senso contrario alle procedure proprie di una struttura rigidamente gerarchizzata dove il problema è soprattutto la gestione ottimizzata delle risorse, ma non la crescita degli individui.
La crescita degli individui vive anche dell’innalzamento della qualità dei rapporti dentro il gruppo, ovvero se colui che detiene la competenza trasferisce conoscenza sulla qualità a chi esperto non è.
Non solo.
Gli artigiani hanno anche un orgoglio verso le abilità che maturano. Quest’orgoglio riguarda anche la dimensione etica di ciò che si fa, dell’atto che si compie. Nel momento in cui si compie un atto e si dà forma a un oggetto ci si chiede: a che servirà? Come sarà usato? Ha una funzione di ausilio? Il problema non è mai solo cosa si fa, ma anche quali domande si rivolgono a se stessi in relazione a ciò che si fa.
David Bidussa
Fondazione Giangiacomo Feltrinelli
Consigli di lettura
L’uomo artigiano di Richard Sennet.
Saper fare bene le cose per il proprio piacere: una regola di vita semplice e rigorosa che ha consentito lo sviluppo di tecniche raffinatissime e la nascita della conoscenza scientifica moderna. Fabbri, orafi, liutai univano conoscenza materiale e abilità manuale: mente e mano funzionavano rinforzandosi, l’una insegnava all’altra e viceversa. Ma non è il solo lavoro manuale a giovarsi della sinergia tra teoria e pratica. Perché chi sa governare se stesso e dosare autonomia e rispetto delle regole, sostiene Sennett, non solo saprà costruire un meraviglioso violino, un orologio dal meccanismo perfetto o un ponte capace di sfidare i millenni…