L’articolo qui riprodotto fa parte della rassegna Una svolta “dal basso” nel cuore dell’Europa: la Friedliche Revolution, la Germania verso la caduta del muro di Berlino
Noberto Bobbio, The Upturned Utopia, “New Left Review”, 177, Settembre-Ottobre 1989, pp. 37-39 (saggio pubblicato originariamente su “La Stampa”, 9 giugno 1989)
La catastrofe del comunismo storico è, letteralmente, sotto gli occhi di tutti: del comunismo come movimento mondiale, nato dalla rivoluzione russa, di emancipazione dei poveri, degli oppressi, dei “dannati della terra”. Il moto di disfacimento sta diventando sempre più veloce. Al di là di ogni previsione. Questo non significa ancora la fine dei regimi comunisti, che possono durare per tanto tempo ritrovando nuove forze per sopravvivere. La prima grande crisi di uno Stato comunista è avvenuta in Ungheria più di trent’anni fa. E neppure in Ungheria il regime è crollato. Anche in questa direzione è più prudente non fare previsioni.
È incontestabile, invece, il fallimento, ancor più dei regimi comunisti, della rivoluzione ispirata alla ideologia comunista, intesa come l’ideologia della trasformazione radicale di una società considerata oppressiva ed ingiusta in una società tutta diversa, libera e giusta. La drammaticità senza precedenti degli eventi di questi giorni sta nel fatto che non è avvenuta la crisi di un regime o la sconfitta di una grande potenza invincibile: è apparso invece, in forma che appare irreversibile, il capovolgimento totale di un’utopia, della più grande utopia politica della storia (non parlo delle utopie religiose), nel suo esatto contrario; un’utopia che ha affascinato, per un secolo almeno, filosofi, scrittori e poeti – ricordate “i domani che cantano” di Gabriel Péri? –, ha scosso intere masse di diseredati spingendole all’azione violenta, ha indotto uomini di alto sentire morale al sacrificio della propria vita, ad affrontare prigionia, esili, campi di sterminio, ha suscitato una forza non solo materiale ma anche spirituale indomita che è sembrata in tante occasioni irresistibile, dall’Armata Rossa in Russia alla Lunga Marcia di Mao, dalla conquista del potere di un gruppo di uomini determinati a Cuba alla disperata lotta del popolo vietnamita contro il più potente esercito del mondo. In uno scritto giovanile Marx aveva definito il comunismo, perché non ricordarlo?, la “soluzione dell’enigma della storia”.
Nessuna delle città ideali descritte dai filosofi si era mai proposta come modello da realizzare. Platone sapeva che quella repubblica ideale, di cui aveva parlato coi suoi amici, non era destinata ad esistere in nessun luogo della terra, ma era vera soltanto, come dice Glaucone a Socrate, “nei nostri discorsi”. E invece è avvenuto che la prima utopia che ha cercato di entrare nella storia, di passare dal regno dei “discorsi” a quello delle cose, non solo non si è avverata ma si sta rovesciando, si è già quasi rovesciata, nei Paesi in cui è stata messa alla prova, in qualche cosa che è venuto sempre più assomigliando alle utopie negative, esistenti sinora anch’esse soltanto nei discorsi (si pensi al romanzo di Orwell).
La miglior prova del fallimento sta nel fatto che tutti coloro che si sono ribellati in questi anni, periodicamente, e ancora con particolare energia in questi giorni, chiedono esattamente il riconoscimento di quei diritti di libertà che costituiscono il primo presupposto della democrazia: non, si badi, della democrazia progressiva o popolare, o in qualsiasi altro modo sia stata chiamata per distinguerla dalle nostre democrazie e per esaltarne la superiorità, ma proprio della democrazia che non saprei come chiamare se non “liberale”, della democrazia sorta e consolidatasi attraverso la conquista lenta e faticosa di alcune libertà fondamentali. Mi riferisco in particolare alle quattro grandi libertà dei moderni, la libertà personale, ovvero il diritto di non essere arrestati arbitrariamente e di essere giudicati secondo leggi penali e processuali ben definite, la libertà di stampa e di opinione, la libertà di riunione, che abbiamo visto conquistata pacificamente, ma contestata sulla piazza Tienanmen, e infine la più difficile da ottenere, la libertà di associazione, da cui nascono i liberi sindacati e i liberi partiti, e coi liberi sindacati e i liberi partiti la società pluralistica, senza la quale non esiste la democrazia. Il completamento di questo processo durato secoli è stato la libertà politica, ovvero il diritto di tutti i cittadini a concorrere alla formazione delle decisioni collettive che li riguardano.
La forza dirompente, e a quanto pare irrefrenabile, dei movimenti popolari che stanno scuotendo l’universo dei regimi comunisti dipende dal fatto che queste grandi libertà vengono ora richieste tutte in una volta. Lo Stato delle libertà è venuto in Europa dopo lo Stato di diritto; lo Stato democratico dopo lo Stato delle libertà. Su quelle piazze ora si chiedono simultaneamente lo Stato di diritto, lo Stato delle libertà e lo Stato democratico. In un loro documento gli studenti cinesi hanno dichiarato che essi combattevano per la democrazia, la libertà e il diritto. Una tale situazione è obiettivamente rivoluzionaria. Una tale situazione là dove non può avere uno sbocco rivoluzionario, come pare non possa accadere in nessuno di quei Paesi, non può avere che o una soluzione graduale, la più avanzata delle quali sembra essere quella polacca, o controrivoluzionaria, come sta avvenendo in Cina, a meno che si svolga in quella ben nota forma storica delle rivoluzioni o fallite o impossibili, che è la guerra civile.
La conquista delle libertà dei moderni, posto che sia possibile e nella misura in cui è possibile, non può essere, per i Paesi dell’utopia rovesciata, se non il punto di partenza. Per andare dove? Mi pongo questa domanda, perché non basta fondare lo Stato di diritto liberale e democratico per risolvere i problemi da cui era nata nel movimento del proletariato dei Paesi che avevano iniziato il processo di industrializzazione in forma selvaggia e poi tra i contadini poveri del Terzo Mondo, la “speranza della rivoluzione”. In un mondo di spaventose ingiustizie, com’è ancora quello in cui sono condannati a vivere i poveri, i derelitti, gli schiacciati da irraggiungibili e apparentemente immodificabili grandi potentati economici, da cui dipendono quasi sempre i poteri politici, anche quelli formalmente democratici, il pensare che la speranza della rivoluzione sia spenta, e sia finita soltanto perché l’utopia comunista è fallita, significa chiudersi gli occhi per non vedere.
Sono in grado le democrazie che governano i Paesi più ricchi del mondo di risolvere i problemi che il comunismo non è riuscito a risolvere? Questo è il problema. Il comunismo storico è fallito, non discuto. Ma i problemi restano, proprio quegli stessi problemi, se mai ora e nel prossimo futuro su scala mondiale, che l’utopia comunista aveva additato e ritenuto fossero risolvibili. Questa è la ragione per cui è da stolti rallegrarsi della sconfitta e fregandosi le mani dalla contentezza dire: “L’avevamo sempre detto!”. O illusi, credete proprio che la fine del comunismo storico (insisto sullo “storico”) abbia posto fine al bisogno e alla sete di giustizia? Non sarà bene rendersi conto che, se nel nostro mondo regna e prospera la società dei due terzi che non ha nulla da temere dal terzo dei poveri diavoli, nel resto del mondo la società dei due terzi, o addirittura dei quattro quinti o dei nove decimi, è quell’altra?
La democrazia ha vinto la sfida del comunismo storico, ammettiamolo. Ma con quali mezzi e con quali ideali si dispone ad affrontare gli stessi problemi da cui era nata la sfida comunista? “Ora che di barbari non ce ne sono più – dice il poeta – che cosa sarà di noi senza barbari?”.