Mi sembra che la ferocia, l’indifferenza e la cecità che caratterizzano la profonda crisi politico-culturale del presente debbano molta della loro radicalità a un rinnovato potere incantatorio del mito politico, capace di incidere profondamente sul modo in cui gli individui si pensano e si trasformano in soggetti attivi nel mondo. Credo infatti che questa sia una buona lente per leggere la complessa nebulosa politica di destra che, parassitando e alimentando la debolezza del liberalismo e della democrazia – e in particolare la sua vulnerabilità rispetto alla circolazione di informazioni false e manipolabili – sta consolidando su base di massa un senso comune nazionalista, sovranista, identitario xenofobo, razzista.
Tale temperie canalizza e dà corpo a violente pulsioni collettive di rifiuto della differenza, per lo più “fantasmatiche” (come avviene nel caso dell’aggressività manifestata nei social network) ma progressivamente sempre più diffuse e materiali nella misura in cui nella dimensione virtuale si consolidano spinte “reali” alla motivazione e all’azione.
Nella destra radicale ci sono minoranze violente (socialmente devianti, spesso criminali) che, tollerate dalle istituzioni e con buone strategie comunicative, esprimono una (vaga) rivendicazione di welfare su un modello di destra sociale declinato in chiave escludente, cioè basato sull’esclusione dai diritti di categorie di soggetti considerati altri. Una destra tecnicamente nazionalista e socialisteggiante (quando non apertamente nazional-socialista), legittimata da aree politiche destrorse molto più consistenti, ben rappresentate tra governo e parlamento, che ne condividono gli obiettivi in chiave anti-europea e anti-migrazioni, che – in modo contraddittorio – stanno in un quadro di destra liberista e di neoliberalismo autoritario e conservatore e ne sposano alcuni temi (genere, sicurezza, famiglia, migrazioni), usandoli come linee programmatiche di intervento (in realtà con estrema approssimazione dal punto di vista pratico) e amplificandoli in modo strumentale e propagandistico.
Il freak show della politica contemporanea italiana che la cronaca racconta quotidianamente è dato da un misto di pratiche e retoriche che si collocano intenzionalmente in modo molto netto a destra: vedono da un lato l’alleanza tra neoliberalismo, nazionalismo, autoritarismo, post-fascismo e dall’altro la disgregazione, frammentazione e marginalizzazione delle sinistre, oggetto di una grave crisi di identità, culturale e organizzativa. Parte ulteriore di questo problema sono una mancata percezione dei dati di realtà (si pensi ad esempio ai numeri effettivi di migranti presenti sul territorio, ai dati sul crimine e sulla sicurezza) e un posizionamento politico legato più a una lettura emozionale e sensazionalistica dei fenomeni che a una loro rielaborazione e interpretazione tale da promuovere scelte razionali e coerenti (il cosiddetto “voto di pancia”). Il che deve essere considerato a mio avviso come un ulteriore risultato della mitocrazia contemporanea. Con questo termine, recentemente proposto da Yves Citton (docente di Letteratura e Media a l’Université Paris 8) si indica il regime politico, tipico del contemporaneo, che individua una dimensione mitica nello spazio pubblico egemonizzato delle immagini prima televisive, e via via digitali, multimediali e transmediali. Come il mito antico dava significato alla vita degli individui e della comunità così la narrazione mediatica detiene oggi il potere che le storie e le immagini hanno di orientare desideri e convinzioni – comportamenti, azioni, condotte –, all’interno di una economia degli affetti che è uno snodo decisivo del potere.
Da un punto di vista storico i totalitarismi, il fascismo e il nazismo in particolare, accanto e insieme alla violenza, si sono serviti di una vera e propria “tecnicizzazione del mito” (l’espressione è di Kérenyi, 1963) per la costruzione del consenso e il consolidamento del potere, ovvero di una manipolazione e strumentalizzazione intenzionale di immagini evocative legate a una determinata tradizione culturale per ottenere effetti di adesione, immedesimazione e mobilitazione. Grazie alla circolazione garantita della propaganda veicolata dai mezzi di comunicazione di massa e dalla mobilitazione totale, elementi immaginari come popolo, razza, stirpe, germanesimo, romanità, leadership sono divenuti oggetti mitici di una sacralizzazione della politica e hanno preso corpo nelle istituzioni e nelle pratiche di massa, permettendo ai regimi totalitari di competere con le religioni tradizionali in termini di credenza e capacità di motivazione.
Ragionare sul mito politico dopo l’epoca dei totalitarismi significa dunque rintracciare, anche successivamente, la persistenza di immagini divenute mitiche perché rimandano a quell’epoca e che rimangono presenti a livello di immaginario: non è un caso che molte forze politiche si rifacciano esplicitamente (o semplicemente alludano) ai simboli del fascismo o del nazismo, proprio in quanto simboli in grado di evocare anche in modo vago una appartenenza. Si pensi alla circolazione di notizie che riguardano magliette, tatuaggi, collane con simboli fascisti o nazisti che vengono usati consapevolmente da esponenti di forze politiche di destra con la funzione di strizzare l’occhio ai propri elettori, “trollare” istituzioni, giornalisti e opinione pubblica, attirare l’attenzione per aumentare il proprio capitale di visibilità.
Ma ragionare sul mito politico significa anche saper individuare nuove narrazioni mitologiche e nuovi vettori di comunicazione nel presente che svolgano analoga funzione di coesione e orientamento politico. In estrema sintesi: se nel corso del Novecento la dimensione tradizionale del “sacro” viene meno, è per complicarsi a dismisura e risultare trasformata. Bisogni che un tempo erano soddisfatti dalla sfera della religione rientrano in altri ambiti; il relativo e apparente “disincanto del mondo” che si sarebbe compiuto nella modernità appare oggi una riconfigurazione del mitico.
Il secolo dei nazionalismi e dei totalitarismi è iniziato con la genesi parallela della propaganda di guerra e della pubblicità di consumo. Dal secondo dopoguerra l’analisi culturale delle forme mitiche e dei meccanismi della loro produzione ha coinciso con il disvelamento delle retoriche e delle narrazioni veicolate dai mass media: gli studi della scuola di Francoforte e di Barthes hanno mostrato che ogni cosa può diventare mito e hanno individuato forme di mitologia in territori “desacralizzati” come quelli della pubblicità, del consumo, degli stili di vita ma dotati di un’aura di miticità, ovvero un surplus di significato, desiderabilità e fascino.
In tempi più vicini, i lavori di Furio Jesi (negli anni Settanta) e Citton (nel nostro decennio) interpretano le forme logiche e retoriche della mitologia come “mitodinamiche” (secondo la definizione di Jan Assmann): tali processi socioculturali sono “macchine mitologiche” ovvero strumenti di produzione di “materiali mitologici” dotati di “potere di scenarizzazione” che sono strategie di mobilitazione e vettori attraverso i quali parole dell’immaginario collettivo si fanno gesto e comportamento sociale.
Con la circolazione dell’informazione nel Novecento, il suo potenziamento con la tecnologia digitale e con la connettività nei tempi più recenti si assiste a un’intensificazione nella dimensione cognitiva che ha immensi effetti sociali e politici. Il «Nuovo ordine narrativo» (Citton) contribuisce alla costruzione linguistica e visiva dell’immaginario sociale e attraverso questo le ideologie dominanti sono in grado di esercitare la propria influenza nella produzione di comportamenti e di credenze anche quando non mostrano contenuti apertamente ideologici. La galassia dell’industria culturale e dell’informazione contemporanea si è ormai sovrapposta completamente alle strategie di consolidamento del potere e costituisce uno dei principali fattori di fabbricazione dei “miti” nei quali ai membri di una società è dato di rispecchiarsi.
Se passiamo dal piano teorico a quello politico nella recente storia italiana concordo pienamente con Guido Panvini che proprio su queste pagine ha recentemente scritto come «dall’inizio della parabola berlusconiana fino all’ascesa della Lega nazionale di Salvini», sia «stata messa in campo, in maniera progressiva ed esponenziale, una riuscita pedagogia dell’odio, volta a creare una vera e propria egemonia culturale». E ancora: «laddove, come in Italia, i populismi hanno conquistato il governo, il rapporto tra politica e cultura si ridefinisce attraverso una lunga sequela di immagini rovesciate: la cultura progressista come egemone nella società, l’antifascismo come ideologia dominante, il relativismo etico dilagante, l’iperestensione dei diritti sociali causata dal Sessantotto come causa della crisi della democrazia».
Questo immaginario consente a chi sta al governo di presentarsi come elemento di rottura e di novità contro i “poteri forti”, corrotti e anti-antinazionali identificati con le forze della globalizzazione; ma accanto a questo vi sono poi altri fattori di mitologia politica del presente da sottolineare.
La cultura di destra e il suo immaginario presentano un altissimo tasso di mitizzazione, in particolare per il riferimento storico alla tradizione, al rifiuto della modernità, alla trascendenza, all’azione, al gesto, all’eroismo e alla morte (penso qui agli elementi che Umberto Eco ha messo in luce nel delineare un idealtipo di “ur-fascismo, o fascismo eterno”): il fascismo, che rappresenta la prima incarnazione moderna e di massa della cultura di destra, è caratterizzato da un tipo di retorica i cui tratti sono immediatezza, pomposità, trivialità, semplificazione, rigidità, fanatizzazione e kitsch. Si tratta di elementi che nella destra contemporanea sono portate all’estremo e che si ritrovano in modo esplicito nelle culture post-fasciste e autoritario-populiste.
Alla semplificazione del reale operata dal linguaggio dogmatico, populista, stereotipizzante, fatto di emotività, irrazionalità e simbolicità, si dovrebbe poter opporre coscienza della complessità, distacco critico e continua messa in discussione di ciò che si presenta come naturale e senza alternative: i già citati Citton e Jesi hanno proposto una strategia culturale di disinnesco del discorso di destra, individuando le enormi difficoltà di uno storytelling di sinistra o le contraddizioni di un populismo di sinistra, per non ricadere nell’errore di essere un opposto simmetrico (e in definitiva solidale) della cultura di destra o la vuota estetizzazione dell’appartenenza ideologica.
Come scriveva Jesi: «Com’è possibile indurre gli uomini a comportarsi in un determinato modo – grazie alla forza esercitata da opportune evocazione mitiche –, e successivamente indurli a un atteggiamento critico verso il movente mitico del comportamento?».
Nel riferimento agli spettri del passato fascista e nazista che fanno le destre possiamo inoltre riconoscere un uso pubblico della storia, altro aspetto particolarmente “tossico” della mitocrazia contemporanea: gli eventi storici legati alla memoria delle guerre del Novecento – si pensi alle date commemorative del calendario civile – diventano nella sfera pubblica referenti per discorsi sull’oggi, perdono il loro significato e la problematicità e nella maggior parte dei casi vengono ridotti a simboli identitari da utilizzare per comunicare il posizionamento del soggetto che se ne appropria e come tali capaci di suscitare continue battaglie di appartenenza.
Le stessa nozioni di “cultura” e “identità”, entrate nel lessico comune, sono usate in modo mitologico: trasformate in sostanze e realtà che sembrano destinate a definire in modo deterministico comportamenti di comunità e gruppi umani, sono diventati gli strumenti per le continue messe in scena di conflitti tra un “noi” e “loro” e per la retorica dello “scontro di civiltà”. In questo senso, gli stereotipi nazionalisti, antisemiti, xenofobi, l’immaginario demonizzante e criminalizzante sui migranti sono oggi in Europa immagini semplificate della realtà, “mitologie comunitarie” che danno risposte facilitate per società in crisi e per questo attraversano il lungo periodo con continuità indipendentemente dal segno politico di superficie: il tema antisemita e anticapitalista del “complotto finanziario ebraico” è in questo senso un evergreen, oggi al centro di grande reviviscenza. Il sistema comunicativo contemporaneo contemporaneo è imballato di storie a sfondo complottista, fino a raggiungere il parossismo come nel caso di quelle sulle “ONG tassiste del mare», gli “eurocrati”, le femministe e il gender e tutti gli altri fantomatici soggetti “antinazionali” che sarebbero al soldo del “finanziere ebreo Soros”.
Tali scorciatoie cognitive, tanto implausibili quanto efficaci su chi è già disposto a crederci, hanno successo perché offrono orientamento facile a fronte della complessità di fenomeni di difficile comprensione e talvolta di grande opacità; perché promettono di fare luce su presunte verità celate e pongono chi vi presta ascolto in una posizione di possesso della risoluzione di un arcano, che ha tratti redentivi tanto più se queste “verità nascoste” vengono raccontate come “eresie” o “dissidenze”, “fuori dal coro” e in contrasto “con il pensiero unico”: sono quindi “verità” che risparmiano dalla fatica di decifrare e danno l’illusione di possedere la chiave di comprensione della realtà, tanto più se sono espresse attraverso slogan e luoghi comuni solo apparentemente chiari. Sono materiali di una narrazione ideologica autoreferenziale, si rafforzano in forza della loro condivisione, costituiscono potenti fattori di conformismo sapientemente utilizzati dagli specialisti della comunicazione politica.
Una accentuata dimensione mitica della politica può ritornare nella contemporaneità in forme nuove e inaspettate perché fornisce risposte di fronte alla crisi della politica e delle identità politiche nel quadro della crisi delle democrazie europee; ma il mito politico ritorna anche perché ha trovato nel digitale e nel web 2.0 nuovi vettori di circolazione e produzione, ancora tutti da decifrare, come ad esempio la comunicazione virale e quella memetica, che sono luoghi importanti di proliferazione delle nuove culture di destra.