Credo che la storia orale abbia oggi di fronte due sfide, almeno in Italia. La prima riguarda una visione complessiva della storia; la seconda riguarda se andare a raccogliere “voci” oggi sia solo un problema di rompere delle consuetudini e invitare a parlare o se la sfida, invece, non sia più radicale.

Comincio dalla prima.

Ha sostenuto Marcello Flores nel corso dell’incontro che uno dei compiti della storiografia in Italia, probabilmente non solo qui, ma per ora limitiamoci a questo ambito, sia quello di prendere in carica i dati che la storia orale ha consegnato alla ricerca, ma che sostanzialmente sono rimasti estranei alle grandi narrazioni storiografiche. Ovvero il fatto che la storia orale non sia mai entrata per davvero tra gli strumenti che hanno contribuito a una storia d’Italia complessiva.

È un’osservazione acuta, sicuramente pertinente, che varrebbe la pena sottolineare se mai nelle prossime settimane qualcuno provasse a riflettere su ciò che ci separa dall’ultimo grande laboratorio di Storia d’Italia rappresentato dalla Storia d’Italia Einaudi diretta da Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, di cui a metà ottobre correrà il mezzo secolo di vita.

Sarebbe interessante riflettere su quell’opera giustamente considerata innovativa e vero spartiacque dell’aggiornamento storiografico contemporaneo. In quell’opera, infatti, che per molti aspetti introduce nella discussione pubblica, nella formazione degli insegnanti, comunque nel mondo di coloro che considerano lo studio della storia uno strumento per comprendere il presente e il rapporto presente/passato/presente, la storia orale non ha un peso, se non marginale. Lo hanno lo studio delle credenze (ricordiamo per tutti il saggio magistrale di Carlo Ginzburg su folklore, magia e religione nel primo volume, o lo studio di Roberto Leydi sulla canzone popolare o di Italo Calvino sulla fiaba dove di traverso la storia orale entra, ma non come una risorsa che condizione il racconto della storia).

Ripensare la storia d’Italia oggi forse è anche acquisire la consapevolezza di come abbiamo ricostruito il passato, ovvero di quali procedure e metodologie abbiamo adottato per raccontare quel passato e, ovviamente, di ciò che non abbiamo raccontato.

Dunque, cinquant’anni dopo, l’esercizio non è lamentarsi su ciò che non c’è, ma su come, anche con l’ausilio della storia orale, sia possibile scrivere una nuova storia d’Italia, almeno per la storia dal Novecento a oggi.

Considero la seconda.

Nel 2004 in occasione della XXXV conferenza annuale di Ialhi, Françoise Bosman (Direttore del CAMT – Centre des Archives du Monde du Travail di Roubaix), nella sua relazione dal titolo Regards sur le syndicalisme français. Histoire et archives ricorda come fosse urgente superare il momento della raccolta degli archivi istituzionali del mondo del lavoro e fosse urgente costruire archivi orali soprattutto avendo come obiettivo “témoins appartenant à la population défavorisée, bien souvent totalement absente des archives”.

Nella discussione che si sviluppò da quell’intervento, anche oltre la seduta in cui Françoise Bosman tenne la sua relazione, il tema divenne ben presto quello della difficoltà di entrare in contatto con quegli attori sociali. Il problema consisteva nel superare la diffidenza e dunque nell’«entrare in confidenza» con quegli attori che si sottraevano all’archivio.

«Confiance» e «méfiance» a lungo all’interno di Ialhi divennero due termini con cui fare i conti.

La consapevolezza era che quel vuoto non era l’effetto di una dimenticanza o di una non curanza, ma di una relazione mancata spesso non riuscita – che teneva lontano il mondo della ricerca, e nel caso di Ialhi, anche il mondo della ricerca militante, e anche quello degli storici che con la oralità avevano una lunga pratica e una lunga storia.

Ovvero: risultava non solo difficile, ma impossibile intercettare alcune esperienze, mondi sociali, culturali, più genericamente i «marginali» che la sfida globale aveva reso prossimi, fisicamente ma non culturalmente.

Il mondo della ricerca, anche quella legata a esperienze di militanza – politica, sindacale – stentava a intercettare quegli attori e, di conseguenza, non si incrociava con i malesseri delle periferie o, almeno, il rischio era che quei malesseri fossero rappresentati, testimoniati e raccontati solo da altri attori. Comunque che la sfera degli esclusi anziché decrescere, aumentasse.

Quel tema e quell’impasse sarebbero tornati prepotentemente sul terreno poco più di un anno dopo quando le notti illuminate di Parigi avrebbero indicato che c’era un soggetto sociale e culturale complesso che si proponeva alla cronaca con cui sostanzialmente la ricerca sociale – compresa quella militante – aveva difficoltà a creare legami, con cui era molto difficile interloquire e di cui era quasi impossibile avviare una pratica di ascolto di parola che portasse a un inizio di raccolta di fonti su quei vissuti, su quelle esperienze, complessivamente su quel malessere.

Quelle voci continuavano a essere “gli assenti dell’archivio”.

Da allora le barriere non sono diminuite. Anzi. E perciò mi chiedo quali siano le condizioni, anche grazie al contributo della storia orale, che ci consentano di scrivere una storia «a parte intera»? Per esempio possiamo considerare limiti, vantaggi e opportunità di realtà di movimento che propongono e offrono tracce del loro agire attraverso la costruzione di depositi in tempo reale, (come racconta Luca Falciola) ma di quelle realtà di movimento che non depositano tracce come ricostruiamo i percorsi? Per esempio: del movimento che conduce all’assalto a Capitol Hill abbiamo “archivi” autoprodotti?  Narrazioni delle voci protagoniste? E se non le abbiamo come possiamo ottenerle? Non c’è, anche in questo caso, una questione non risolta di «confiance» e «méfiance»?

E ancora: la geografia del voto di domenica 25 settembre ci consegna un Paese in cui l’Italia industriale, ovvero anche del lavoro dipendente, o di ciò che rimane del sistema delle grandi imprese, ha scelto in gran parte l’estrema destra. Nel frattempo, non si registrano defezioni o abbandoni di militanza sindacale. Dunque, quello che ci segnala questo dato è che un’appartenenza sindacale che ha ancora a cuore la protezione del lavoro, ritiene di poterla ottenere a destra, e non più a sinistra. Anche in questo caso la domanda è: come si raccolgono quelle voci, come si individuano? Hanno ancora voglia di parlare? Di parlarci? O di parlare a chi altro?

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