Lo Statuto dei lavoratori, la legge che più tutela i lavoratori dipendenti e l’azione sindacale nei luoghi di lavoro, arriva al termine di un lungo miracolo economico, un periodo che si può suddividere in due decenni: il decennio 1950 e il decennio 1960. Nel primo l’attività sindacale e le relazioni di lavoro sono caratterizzate dallo scoppio della guerra fredda e dai conflitti politici connessi. Vi è una sorta di guerra fredda anche in campo sindacale con forti divisioni all’interno del movimento dei lavoratori. In questo periodo lo scontro in fabbrica spinge le imprese ad azioni repressive nei confronti degli operai militanti aderenti ai partiti comunista e socialista. Si determina così un quadro di debolezza sindacale.
All’inizio degli anni Sessanta, invece, nuovi livelli di unità sindacale e una ripresa delle mobilitazioni operaie danno inizio a un nuovo ciclo di rivendicazioni che raggiungerà l’apice nell’Autunno caldo del 1969. Lo Statuto dei lavoratori ha una sua storia che va considerata in questo contesto.
Molte delle norme previste dallo Statuto fanno riferimento proprio a quelle azioni repressive messe in atto dai datori di lavoro nel clima di aspro conflitto politico legato alla guerra fredda. Se si prendono in considerazione alcuni degli articoli, si evince quanto questo sia vero. Nel titolo primo relativo alla libertà e alla dignità dei lavoratori, all’articolo 2 c’è il divieto di vigilanza e di contestazione ai lavoratori nei luoghi dove si svolgono le attività lavorative da parte delle guardie giurate: le polemiche sul controllo repressivo affidato alle guardie erano diffuse. All’articolo 5 si proibisce ai medici aziendali di effettuare accertamenti sanitari e di idoneità dei lavoratori, accertamenti che devono essere eseguiti da parte di enti pubblici. L’articolo 8 prevede il divieto di indagine sulle opinioni dei lavoratori, e qui è evidente il riferimento alle schedature che venivano effettuate sulle posizioni e le attività politiche dei dipendenti. L’articolo 11 stabilisce che le attività ricreative e assistenziali messe in campo dalle imprese – il welfare aziendale attraverso il quale gli imprenditori cercano di conquistare consenso e acquiescenza da parte dei dipendenti, bollato di paternalismo dai militanti – devono essere gestite da organismi nei quali la maggioranza sia riservata ai rappresentanti dei lavoratori. Nel titolo secondo, relativo alla libertà sindacale, all’articolo 16 si proibiscono i trattamenti economici collettivi discriminatori, in riferimento alla pratica dei premi cosiddetti “di collaborazione”, versati solamente ai lavoratori che non scioperavano. Infine, l’articolo 17 prevede la proibizione dei sindacati di comodo, i cosiddetti sindacati gialli. Al di là dunque della tutela legata al più famoso articolo 18, che prevede la reintegrazione nel posto di lavoro per licenziamenti senza giusta causa, la serie di articoli che abbiamo ricordato indica come si volessero tutelare i lavoratori da pratiche repressive utilizzabili dalle imprese.
Ora, l’idea di uno Statuto dei lavoratori era stata avanzata fin dal 1952 da Giuseppe di Vittorio, l’allora segretario generale della CGIL, nell’anno, il 1952, nel quale alla Fiat era stata costituita una Officina sussidiaria ricambi, dove vennero confinati 130 militanti della FIOM, i quali la ribattezzarono Officina stella rossa; l’officina venne chiusa nel 1957, con il contestuale licenziamento dei confinati.
Lo Statuto dei lavoratori, contro le pratiche discriminatorie, aveva la finalità di introdurre all’interno dei luoghi di lavoro le libertà costituzionali, e il quadro delle tutele si presenta assai ampio. Lo Statuto venne approvato a ridosso dell’Autunno caldo. Fu senz’altro frutto delle ampie mobilitazioni operaie del periodo. Ma godette anche di un’opinione pubblica ampiamente schierata a favore di concessioni agli operai, nella convinzione che i lavoratori avessero ottenuto meno del loro contributo al miracolo economico, per i salari aumentati meno della produttività del lavoro, per i pesanti disagi vissuti da milioni di migranti alle prese con la mancanza di case e di servizi.
Qual è oggi ancora il rilievo dello Statuto dei lavoratori? Il problema è che era prevista l’applicazione solamente alle imprese con oltre quindici dipendenti. Nel frattempo, a distanza di mezzo secolo, la struttura delle imprese è cambiata enormemente. Si è passati dal lavoro ai lavori, dalle numerose imprese medio grandi alla miriade di microimprese che sono ben al disotto dei quindici dipendenti. Dunque le tutele dello Statuto non riguardano una massa in crescita di lavoratori, in un mondo dove appunto prevalgono le piccole attività, e le forme di lavoro precario, intermittente, il lavoro delle piattaforme e la gig economy, per non dire del lavoro dipendente mascherato attraverso false partite IVA. Dunque, il problema che oggi si pone è quello di studiare nuove tutele che riescano a difendere interessi e a tutelare diritti per queste nuove tipologie di lavoratori. Due strategie sembrano possibili: una, quella di riconoscere la posizione di lavoratore dipendente alle figure ibride e atipiche in modo da poter estendere loro le tutele riservate al lavoro dipendente; un’altra posizione, più flessibile, tende a sostenere che occorre inventare nuovi strumenti normativi di tutela che tengano conto di un mondo del lavoro complesso, frammentato e sfaccettato. Tra queste due strade probabilmente la seconda è la più efficace, perché può intervenire a tutelare più efficacemente, meglio adattandosi alla realtà composita dei nuovi lavori. Oggi, di nuovo, sta crescendo la consapevolezza che la svalutazione del lavoro è una non secondaria concausa della stagnazione economica. I tempi sembrano maturi per un rinnovato Statuto.