Con la fine del lockdown, si è assistito anche in Italia a un ritorno quasi immediato della mobilitazione collettiva. Da un lato, si sono mobilitati gruppi e settori che hanno avanzato rivendicazioni legate alla condizione di lavoro: braccianti, lavoratori della cultura e dello spettacolo, lavoratori della scuola. È emersa poi la mobilitazione antirazzista ispirata alla grande ondata di proteste negli Usa. Dall’altro lato, è scesa in piazza la destra. La destra politica di Salvini e Meloni. E la destra “di movimento” no-vax, no-5g, no-mascherine, federalista ma sovranista, presidenzialista e anti-tasse dei ‘gilet arancioni’.
I media, anche quelli democratici, quelli mainstream, liberali o suppostamente collocati nell’ambito progressista, hanno dato amplissimo spazio alle seconde – amplificando oltremodo manifestazioni come quella dei gilet arancioni, partecipate da poche centinaia di persone – e sostanzialmente ignorato le prime, poco utili alla rappresentazione dicotomica che i media mainstream preferiscono: da un lato gli illuministi liberali e possibilmente liberisti, dall’altro la giungla selvaggia della barbarie populista. In mezzo, niente.
fonte: huffingtonpost.it
Da parte loro, le mobilitazioni, le proteste e le campagne del mondo del lavoro, antirazziste, antifasciste, progressiste e democratiche italiane, importantissime in quanto tali, da molto tempo non riescono a far emergere un insieme unitario e simbolicamente denso di richieste, rivendicazioni e soggettività da cui possa emergere il profilo complessivo di un’alternativa. Da troppo tempo in Italia – dal 2010, data dell’ultimo grande fenomeno di protesta che si potesse definire “movimento sociale”, quello di studenti e ricercatori contro la riforma Gelmini dell’università – non esiste una mobilitazione in grado di assumere dimensioni che abbiano impatto sul senso comune, e che siano in grado di articolare tra loro le domande e le prospettive di settori diversi della società, ‘cucendole’ in un disegno unitario che possa essere efficacemente comunicato alla maggioranza della società. In particolare si sente, soprattutto in questa fase di crisi pandemica, l’assenza di una mobilitazione forte e unitaria del mondo del lavoro. Unitaria non nel senso dell’unità d’azione tra confederazioni sindacali, ma nel senso del coprotagonismo di diversi settori, figure lavorative, bisogni e interessi sociali. La lista delle rivendicazioni reali o potenziali del mondo del lavoro era estesa già prima della crisi pandemica, è cresciuta durante la pandemia, può crescere ulteriormente nei prossimi mesi. È difficile comprendere perché da un bacino così ampio e diffuso non possa emergere una mobilitazione generale, la sola, probabilmente, che potrebbe dare ai tentativi di affrontare la crisi attuale un segno diverso da quello del ritorno alle politiche precedenti o di un loro ulteriore peggioramento.
Le conseguenze negative di questa frammentarietà dell’azione sociale e collettiva sono confermate dai governativi “Stati generali dell’economia”. In Francia, un insieme eterogeneo e ampio di organizzazioni sociali ha dato vita a un programma unitario, per punti concreti, sulle risposte da dare alla crisi. In America Latina centinaia di organizzazioni hanno sottoscritto un “Pacto Ecosocial” su come uscire dalla pandemia. In Italia, oltre alle importanti mobilitazioni settoriali o tematiche, si è prodotto, in questi mesi, un immenso volume di incontri online, webinar, ebook, analisi, riflessioni, tutte molte utili, in gran parte convergenti tra loro, ma isolate, avanzate da ciascun gruppo o ciascuna rete in autonomia, senza ‘fare massa’ nemmeno dal punto di vista intellettuale, senza riuscire a bucare il velo dell’invisibilità nei confronti del senso comune, senza che niente sia emerso, al di fuori di settori già attivi e mobilitati, di questa produzione peraltro seria, informata e approfondita. Avviene così che gli “Stati generali” li convochi il governo per parlare con i ‘grandi’ del paese e d’Europa, e che non esistano invece “Stati generali dal basso” convocati dalle tante organizzazioni impegnate socialmente, politicamente o intellettualmente nell’immaginare un’alternativa alla situazione esistente.
Esiste una precisa simmetria tra questa frammentarietà del sociale e la frammentarietà del politico. Non c’è bisogno di soffermarsi sull’attuale debolezza e impalpabilità della sinistra politica in Italia, caso quasi unico al mondo per la radicalità con cui questa debolezza e questa impalpabilità si manifestano. Non che la sinistra politica italiana non esista. Esiste una sinistra di governo nel governo, su cui però non pare avere un’influenza significativa, così come è sostanzialmente assente dal dibattito pubblico, pur esprimendo una figura di primo piano come il Ministro della Salute. Ed esistono, al di fuori del parlamento, organizzazioni politiche che fanno tentativi importanti di legare azione diretta, mobilitazione e rappresentanza. Ma questi tentativi restano deboli, non solo per responsabilità di queste organizzazioni, naturalmente. Il risultato è quello che vediamo: una sinistra forse unica al mondo per numero di attivisti e militanti, che sono però dispersi, isolati quasi fino al livello del singolo individuo che si fa micro-partito che analizza e commenta vicende e scenari sui social media; una ‘montagna’ di discorsi, analisi e proposte anche considerevoli per qualità e sottigliezza, che politicamente non riescono a diventare ‘qualcosa’ che esista, che pesi, che si senta, che parli in modo da essere ascoltato.
È probabilmente chiaro a tanti soggetti impegnati in una delle tante dimensioni dell’attivismo di sinistra (sindacale, mutualistico, associativo, politico, culturale) cosa sarebbe utile che accadesse. Sarebbe utile che ci fosse una mobilitazione unitaria del mondo del lavoro, capace di sfidare la quarantennale subordinazione, anche simbolica, del lavoro all’Impresa (scritta in maiuscolo, perché nella società contemporanea l’impresa ha assunto i caratteri della semi-divinità, l’entità che si può evocare, si può ascoltare, si può interpellare, ma non si può discutere; l’Impresa è il Tutto della società, il principio ordinatore, la fonte delle norme, dei valori). Sarebbe poi utile che organizzazioni diverse tra loro ricominciassero a organizzare mobilitazioni unitarie che assumano una portata ‘generale’: unitarie e ‘generali’ sia nelle rivendicazioni avanzate che nella capacità di condensarle in poche ed efficaci idee-forza. E sarebbe utile che questo lavoro sul lato del sociale avesse un corrispettivo sul piano della rappresentanza e dell’organizzazione politica, cioè che si desse vita a un soggetto politico della sinistra che nasca non per coltivare angoli marginali dello scontro politico, ma per diventare grande, incisiva, forte e duratura. E sarebbe utile che le organizzazioni sociali partecipassero e/o instaurassero una relazione di dialogo e confronto (e quando necessario, di conflitto) con questa rinnovata soggettività politica della sinistra. Sarebbe utile, infine, che la quasi ciclopica produzione culturale e intellettuale che si elabora nei diversi universi della sinistra politica sociale partecipasse, anche criticamente, ma attivamente, a questi tentativi.
Analisi e proposte che sottolineano l’importanza di costruire un simile processo di ritessitura tra lavoro sociale, lavoro intellettuale e lavoro politico riemergono ciclicamente. A volte non c’è n’è stata la volontà, spesso è mancata la forza per farlo. Mai come adesso, però, questo lavoro di ritessitura è stato necessario.