Università del Salento
Dottore magistrale in Sociologia e Ricerca Sociale presso l’Università del Salento

photocredits Alex Majoli


 Una crisi inedita


L’annuncio della Commissione Europea di voler sospendere il Patto di Stabilità e alleggerire i vincoli per gli aiuti di Stato, insieme alla disponibilità della Banca Centrale Europea (BCE) di acquistare i titoli di Stato per contenere i tassi di interesse ed evitare speculazioni da parte dei mercati finanziari, sono delle aperture importanti ma ancora del tutto insufficienti per contrastare la crisi causata dal Coronavirus.

Assistiamo ad una crisi sanitaria con forte impatto negativo a livello economico e sociale, di natura differente rispetto alla crisi finanziaria del 2008 e a quella del debito sovrano del 2011. Oggi, infatti, siamo in presenza di uno shock esogeno al sistema economico, la cui dimensione richiede politiche diverse rispetto al passato.

Se da un lato inizia ad aprirsi un piccolo varco nell’impostazione neoliberista che ha orientato le politiche economiche nell’Unione Europea (UE) degli ultimi trent’anni, dall’altro le risposte all’emergenza fornita dalle istituzioni europee e dal governo italiano risultano ancora inadeguate per affrontare una crisi inedita ed evitare il collasso economico.

Il richiamo per un immediato intervento pubblico non è arrivato solo dai critici dell’attuale modello di sviluppo [1], [2], [3] ma persino dall’ex presidente della BCE, Mario Draghi, che ha sostenuto la necessità di un incremento del debito pubblico per far fronte all’emergenza Covid19 poiché l’alternativa, ben più pericolosa, sarebbe la distruzione della capacità produttiva delle imprese e dei posti di lavoro [4].


Mario Draghi


Il vicolo cieco dell’austerità


Questa drammatica crisi apre uno spazio del tutto nuovo per discutere l’inefficacia delle politiche economiche adottate fino ad oggi e ripensare la spesa pubblica e il debito pubblico come due variabili controllate dalla politica economica e non dettate dal mercato.

Nella teoria economica dominante, quella di origine neoclassica, si argomenta che l’aumento del debito pubblico riduca il tasso di crescita economica per due effetti:

(i) l’espansione della spesa pubblica impedirebbe alle imprese di realizzare gli investimenti nei settori in cui è presente lo Stato;

(ii) i consumi privati diminuirebbero per far fronte a futuri aumenti di tasse causati dalla necessità di ripagare il debito pubblico tramite la tassazione.

In questa concezione, la tesi è che il debito pubblico si ripaga generando avanzi primari, cioè attraverso un contestuale aumento della tassazione e una riduzione della spesa pubblica, con l’obiettivo di stimolare gli investimenti privati. In questa particolare ottica, è il settore pubblico, caratterizzato da sprechi ed inefficienze, a far crescere il debito pubblico [5].

In totale contrapposizione a questa teoria economica, in ambito post-keynesiano si sostiene che il continuo aumento del debito pubblico sia imputabile ad una spirale costituita da recessione e deflazione che viene alimentata dalle stesse politiche economiche implementate per ridurre il debito pubblico, soprattutto in rapporto con il Prodotto Interno Lordo (PIL). Questa linea si rifà alla teoria della deflazione da debito elaborata da Irving Fisher [6] e ne propone un’estensione ai quei fattori che determinano squilibri regionali. Nei Paesi in cui vi è una maggiore deflazione, vi è anche un aumento maggiore del rapporto debito pubblico/PIL mentre una bassa deflazione viene associata a bassi aumenti del debito [7]. Inoltre, ad incidere sull’aumento del debito pubblico vi è anche una forte spinta recessiva accentuata, da un lato, dalle riforme del mercato del lavoro che hanno prodotto un’occupazione precaria e poco retribuita e, dall’altro, dalla tassazione divenuta sempre meno progressiva.

Una decisione cruciale che ha determinato la crescita del debito pubblico italiano riguarda il “divorzio” tra il Ministero del Tesoro e la Banca d’Italia avvenuto nel 1981. Questo provvedimento non ha più consentito all’allora nostra Banca Centrale di acquistare tutti i titoli di Stato rimasti invenduti sul mercato, causando quindi un’esplosione del debito pubblico attraverso l’aumento dei tassi di interesse invece del suo contenimento [8].

Nei successivi anni ‘90, si è continuato con l’applicazione dei principi neoliberisti dettati dall’UE con l’obiettivo finale di ridurre ulteriormente il rapporto debito pubblico/PIL. L’impossibilità di monetizzare il debito pubblico, prima con la Banca d’Italia e poi con la BCE, ha implicato una contemporanea riduzione della spesa pubblica e una maggiore tassazione che, in un contesto caratterizzato da aliquote marginali sempre più ridotte, è ricaduta sui redditi più bassi. Questo ha determinato una riduzione dei salari al netto della tassazione e, quindi, una riduzione dei consumi, provocando così un calo della domanda aggregata, dell’occupazione e dunque del PIL, determinando un ulteriore aumento del rapporto debito pubblico/PIL.


Ripensare lo sviluppo


Se l’attuale modello economico aveva già mostrato tutti i suoi limiti, con il Coronavirus è entrato in crisi mettendo in evidenza l’affanno degli Stati che hanno sacrificato la spesa pubblica ed indebolito interi settori pubblici essenziali, tra cui la sanità [9], in nome del pareggio di bilancio e della riduzione del debito pubblico.

È preoccupante che dinanzi ad una pandemia che colpisce il mondo intero, dalle istituzioni europee provenga il consueto appello alla disciplina fiscale e la proposta di prestiti ai Paesi in difficoltà. Questa intransigenza segnala la volontà di voler provare a scaricare anche questa nuova crisi sui Paesi più deboli e le persone meno protette, come già avvenuto dopo il 2008 e il 2011.

La profondità dell’attuale crisi, sommata alle difficoltà create dalle precedenti, non permetterà di fare affidamento al solo welfare familiare e ai risparmi privati. In questo momento per superare la fase più dura e critica è necessario un sostegno pubblico ed immediato al reddito di tutti i lavoratori, soprattutto dei meno tutelati, e alla liquidità delle imprese, a partire da quelle più piccole, per evitare il cortocircuito fallimenti-disoccupazione.

Infatti, senza un intervento pubblico, si passerà molto rapidamente dal crollo del reddito alla caduta dei consumi, poi dal blocco della produzione all’azzeramento dei ricavi, e quindi dei profitti attesi. Questo porterà ad un aumento dei fallimenti e della disoccupazione che, a loro volta, produrranno un impoverimento generalizzato e una ridotta capacità dello Stato di tassare.

Se vogliamo evitare che la recessione in cui siamo già entrati si trasformi in una lunga e dolorosa depressione, è fondamentale archiviare fin da subito le politiche di austerità e lanciare una nuova fase economica basata su politiche fiscali espansive, coordinate a livello europeo, ed energiche politiche monetarie per l’Eurozona.

Oltre agli strumenti, debito pubblico nazionale monetizzato dalla BCE in qualità di prestatore di ultima istanza oppure titoli di debito europeo garantiti dalle istituzioni europee o altro, bisognerebbe riflettere sull’intuizione di Michał Kalecki e sul perché vi sia tanta difficoltà a far accettare, anche in piena crisi, un intervento pubblico capace di stimolare la ripresa [10].

Una volta superata questa prima fase emergenziale, per rilanciare un tessuto economico soffocato dal blocco produttivo, diminuzione dell’occupazione, caduta della domanda e riduzione dell’offerta, saranno determinanti gli investimenti pubblici e le politiche industriali di lungo periodo con l’obiettivo di una piena e buona occupazione.


Riferimenti bibliografici


[1] E. Brancaccio et al. (2020), Con o senza l’Europa: economisti italiani per un piano “anti-virus”, economiaepolitica.it, 13 marzo

[2] European Trade Union Confederation (2020), Appeal “Make money on value, not on health” #WhateverItTakes, 19 marzo

[3] N. Acocella et al. (2020), Appello degli economisti, Coordinamento per la democrazia costituzionale, 25 marzo

[4] M. Draghi (2020), Draghi: we face a war against coronavirus and must mobilise accordingly, Financial Times, 25 marzo

[5] A. Alesina et al. (2019), Austerità. Quando funziona e quando no, Milano, Rizzoli

[6] I. Fisher (1933), The Debt-Deflation Theory of Great Depressions, Econometrica, vol. 1, no. 4, 337–57

[7] G. Colacchio e G. Forges Davanzati (2019), La moderazione salariale e gli squilibri regionali in Europa, Economia & Lavoro, n. 3, 15-28

[8] G. Forges Davanzati G. e N. Giangrande (2019), A crise econômica italiana e a proposta do Estado como inovador de primeira instância, Revista Brasileira de Economia Social e do Trabalho, v.1, DOI: 10.20396/rbest.v1i0.12560

[9] N. Giangrande (2020), Tutti i danni dei tagli alla spesa pubblica, Rassegna Sindacale, 27 marzo 2020

[10] M. Kalecki (1943), Political Aspects of Full Employment, The Political Quarterly, vol. 14, no. 4, 322–30

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