L’economia collaborativa e i suoi paradossi
In questo scenario di transizione – che ridefinisce i rapporti tra economia e società, tra crescita e lavoro, tra produttività e occupazione – due gli effetti significativi. Da un lato, il forte incremento del tasso di disoccupazione giovanile e il rischio di marginalizzazione di un importante segmento della società. Dall’altro, la possibilità di analizzare le trasformazioni in atto a partire dalle strategie inedite messe in campo da chi sconta una difficile integrazione nel mondo del lavoro e dagli scenari evolutivi disegnati dal progresso delle tecnologie.
Tra le novità introdotte dalla combinazione di crisi economica, tecnologie digitali, nuovi bisogni sociali e sensibilità culturali emergenti, troviamo la sharing economy. Fenomeno articolato e controverso, proposto da una parte come radicale ripensamento dei paradigmi di scambio e redistribuzione tradizionali e dall’altro come modello complementare o declinazione particolare dell’economia di stampo capitalistico. A questo proposito Michel Bauwens, studioso e fondatore della P2P Foundation, afferma che l’economia collaborativa sta crescendo integrandosi col sistema capitalista tradizionale e che quest’ultimo stia sfruttato le risorse e le innovazioni che il modello collaborativo sta creando e mobilitando per il guadagno privato.
Quanta “economy” genera lo “sharing”?
Secondo le stime della società di consulenza Price waterhouse Coopers (PwC), attorno a questa “nuova economia”, nei prossimi 10 anni, si creerà un giro di ricchezza che sfiorerà i 335 miliardi di dollari. Questo spiega perché in questo settore gli investimenti stiano continuando a crescere.
Nata dal basso in una logica pienamente “bottom up”, cresciuta grazie alla sempre maggiore consapevolezza nei consumatori circa la necessità di adottare stili di vita più sostenibili, affermatasi come risposta alla scarsità delle risorse, l’economia collaborativa, complice anche la sua natura fortemente partecipativa, è esplosa già da qualche anno, riscontrando grande successo. Tutto questo ha contribuito a rendere la sharing economy non più un fenomeno di nicchia ed “emergenziale”, frutto delle necessità avverse degli anni della crisi, ma una realtà fatta di soggetti concreti e strutturati, che hanno conquistato ampie fette del mercato.
Tuttavia, sebbene in forte espansione, il fenomeno non ha ancora trovato una definizione univoca ed è spesso difficile capire cosa possa rientrare sotto il titolo “sharing” e cosa no.
Più in generale, come suggerisce Adam Arvidsson, occorre interrogarsi sulla tenuta stessa del binomio “sharing economy”: cosa c’è di “sharing” e cosa c’è di “economy”? Arvidsson identifica due tipi di sharing economy. Uno a prevalenza “sharing”, che si alimenta delle reti collaborative, che riesce a innovare facendo della condivisione il suo tratto caratteristico, ma che spesso si riduce a un fenomeno che genera poche risorse in termini di valore monetario. Ed uno orientato al lato “economy”, che maschera vecchie logiche del sistema economico con una veste solo apparente di innovazione.
Qual è il suo impatto sul mondo del lavoro?
Già da tempo diversi osservatori stanno mettendo in guardia sul “lato oscuro” della sharing economy, cioè sul rischio che dentro questa categoria, ormai onnicomprensiva proprio perché non ancora definita chiaramente, si possano nascondere tentativi di elusione delle normative sulla tassazione e sulla concorrenza, o sistemi di gestione poco chiari che finiscono per penalizzare i lavoratori dipendenti. Il mondo del lavoro quindi rischia di essere danneggiato dal fatto che in un sistema così acerbo, non siano ancora definiti in modo chiaro sistemi di tutela, regolamentazione e controllo, trasformando il mercato del lavoro in una “eBay degli umani”.
Cercare di chiarire questi aspetti rappresenta una delle sfide più interessanti per il futuro dell’economia collaborativa, che coinvolge in primo luogo le istituzioni ma anche gli operatori del settore, chiamati a partecipare pro-attivamente alla definizione di regole condivise.
Il fatto che un fenomeno innovativo non abbia dei contorni così definiti non vuol dire, infatti, che non abbia impatti positivi. La sharing economy è certamente un’opportunità da cogliere, che può generare conoscenza, idee e pratiche che possono rispondere meglio o diversamente ai bisogni delle persone. È un terreno fertile, inoltre, per la creazione di forme di prossimità e mutualismo che spesso colmano il vuoto di appartenenza e di rappresentanza degli ultimi anni. In questo senso, le piattaforme si propongono come luoghi di aggregazione e creazione di capitale sociale, lavorativo e culturale. Luoghi di scambio che portano con sé la possibilità di un riconoscimento reciproco per coloro – lavoratori non standard, freelance, lavoratori autonomi – che scontano una condizione di frammentazione sociale.
Tuttavia, tra i soggetti chiamati a cogliere le sfide dell’economia della collaborazione vi sono certamente anche le aziende tradizionali che, sempre più spesso, si trovano a dover ripensare le proprie strategie produttive e comunicative, ma anche il proprio modello di business in direzione di un coinvolgimento più diretto dei propri stakeholder. Alcuni soggetti economici stanno, infatti, rimodulando i propri servizi in chiave collaborativa, per non essere esclusi da fette del mercato o per evitare di offrire prodotti che non incontrano più le esigenze e le abitudini dei consumatori (o meglio consumAttori, vista la sempre maggiore capacità di attivazione degli utenti).
Cosa accade nel nostro Paese?
L’Italia rappresenta un caso di studio molto interessante, poiché alle sfide poste dall’economia collaborativa sta rispondendo con modelli e sperimentazioni molto peculiari che conciliano i valori e la cultura con l’innovazione.
Molti contesti urbani stanno sviluppando una strada verso queste nuove forme di economia collaborativa che, secondo alcune scuole di pensiero, si pongono come alternativa antitetica al modello capitalista tradizionale, mentre per altri studiosi rappresentano un nuovo modo di fare economia che può integrarsi con quello già esistente, ma non lo sostituirà. In particolare questo ultimo scenario sembra essere quello che si sta realizzando a Milano, città in cui la tradizione manifatturiera sta cercando di integrarsi alle dinamiche della new economy.
Proprio la maggiore consapevolezza delle persone e la capacità di attivarsi re-inventando nuove forme di aggregazione e di dialogo, stanno contribuendo alla sperimentazione di pratiche collaborative inedite e peculiari. Nel nostro Paese tali modelli si stanno sviluppando attingendo a una cultura della condivisione che affonda le sue radici nella tradizione, basti pensare alla nostra Costituzione che è intrisa di cultura collaborativa. Stiamo dunque assistendo, da nord a sud, alla sperimentazione di interessanti modelli applicativi, come il caso dei coworking. Si tratta di un fenomeno sempre più diffuso e molto eterogeneo, nato come luogo di aggregazione e condivisione soprattutto per i lavoratori indipendenti, ma anche come spazio di innovazione tecnologica e che, nella sua varietà, si presenta anche sotto forme che non necessariamente hanno come priorità lo sviluppo di esperienze professionali, quanto quello di costruire spazi di condivisione di progetti con finalità sociale, come sta accadendo a Matera con il progetto di coworking rurale di Casa Netural.
Un altro esperimento interessante è quello che sta sta portando avanti Christian Iaione di LabGov, il Laboratorio per la Governance dei beni comuni, attraverso la co-progettazione e la co-gestione dei beni comuni, tramite partenariati pubblico-privati. Le logiche sharing infatti coinvolgono anche i modelli di governance e soprattutto richiedono nuove forme e modalità di relazione tra cittadini e Istituzioni, basate su rapporti collaborativi, piuttosto che su un modello di diffidenza e distacco, come accadeva nel passato.
L’emersione della collaborazione, in tutti gli ambiti della vita sociale, dall’economia al lavoro, rappresenta dunque un fenomeno complesso, non privo di criticità e spesso ancora ben lontano dall’affermarsi come paradigma dominante. Allo stesso tempo però, sta offrendo una nuova prospettiva e una sfida affascinante per canalizzare le risorse e le energie latenti nella comunità, verso la creazione di nuove pratiche di innovazione che sicuramente sapranno influenzare anche il futuro.