Parlare di giovani e lavoro in Italia oggi vuol dire approfondire due dimensioni parallele ma interconnesse: da un lato, i processi di formazione e le politiche di inserimento nel mondo del lavoro,
anche in relazione al contesto europeo; dall’altro, le dinamiche di una generazione che incarna uno dei grandi paradossi del nostro Paese: quello di rappresentare allo stesso tempo la colonna portante della forza lavoro futura e uno dei segmenti della società attualmente più svantaggiato nel mercato del lavoro. Il Progetto Spazio Lavoro sviluppa questi temi con l’obiettivo di creare un terreno di dibattito aperto a tutti i protagonisti dell’attuale scenario lavorativo.
La ricerca Let’s get to work. The future of labour in Europe del CEPS di Bruxelles fotografa lo scenario che attende il futuro del lavoro in Italia e in Europa a partire da alcune domande chiave.
Giovani e lavoro: un binomio impossibile?
I ventenni e i trentenni di oggi sono giovani che faticano a integrarsi nel mercato del lavoro. I dati delle più recenti statistiche ISTAT raccontano di un tasso di disoccupazione giovanile che in Italia continua a crescere.
Nello scenario italiano, raccontato da Lara Maestripieri (ricercatrice di Spazio Lavoro) e Roberto Rizza (sociologo dell’Università di Bologna) nel volume Giovani al Lavoro: i numeri della crisi, questa penalizzazione si concretizza principalmente in due fenomeni: 1) il livello di disoccupazione e di inattività raggiungono valori più alti che nel resto d’Europa; 2) la maggiore competenza non sembra essere un vantaggio per intraprendere un percorso professionale soddisfacente.
A livello europeo la situazione non sembra essere migliore: dal 2008 in tutti i Paesi Europei, eccezion fatta per la Germania, il tasso di disoccupazione giovanile ha subito un drammatico incremento e ha acquisito caratteristiche che differenziano i disoccupati di oggi da quelli delle precedenti generazioni. Negli ultimi anni infatti si sente spesso parlare di NEET, la categoria – comparsa nelle statistiche Eurostat e nel vocabolario degli esperti che studiano l’andamento del mercato del lavoro – di giovani Not in Employment, Education or Training. Si tratta di una fascia di persone totalmente inattiva nel percorso professionale, che in Italia rappresenta più di un quarto degli under 30, situata in una sorta di zona grigia che gli conferisce una valenza sociale molto particolare, tra l’impossibilità di agire, il lassismo e la rassegnazione.
Il mercato del lavoro attuale sembra aver inasprito le disuguaglianze intergenerazionali che si confermano dunque come uno dei temi prioritario da sottoporre all’agenda politica del Paese.
Il rischio, come ricorda Mauro Magatti nella sua prefazione al saggio di Karl Mannheim – un testo classico della sociologia sul conflitto tra generazioni, scritto negli gli anni ’20 del Novecento – è che il solco tra le generazioni si ampli sempre di più e che i giovani diventino le nuove figure marginali del futuro.
Il lavoro sta cambiando: l’Italia è pronta a formare i professionisti del futuro?
L’ingresso nel mondo lavoro nell’era post-industriale va inquadrato nell’ottica di una preminenza del lavoro intellettuale come destino quasi ineluttabile delle trasformazione dell’economia moderna: i giovani possono avvalersi di un’abbondanza mai vista prima di tecnologie e di risorse le cui potenzialità necessitano l’acquisizione di un determinato know how per essere sfruttate al meglio.
Riflettere su come è cambiato il lavoro, oggi, significa dunque anche chiedersi come avvenga il passaggio tra formazione e lavoro, quale sia il grado di occupabilità dei giovani, quali percorsi ripaghino l’investimento in formazione e quali no.
Roberto Rizza dell’Università di Bologna evidenzia le sfide di formare la classe lavorativa dell’economia della conoscenza: l’investimento congiunto in politiche educative e politiche industriali, per generare da un lato risorse formate in modo adeguato e dall’altro una domanda di lavoro altamente qualificato.
Per incrementare la conoscenza, è giusto dunque che lo Stato si impegni ad aumentare sempre più le competenze della propria forza lavoro, in un’ottica di quello che oggi viene definito Social Investment.
Con questo obiettivo, i governi post-crisi hanno cercato di mettere in campo esempi e buone pratiche tese a favorire la transizione scuola-lavoro. Ne è un esempio l’apprendistato in alta formazione, uno strumento volto a facilitare l’ingresso di figure ad altissima competenza nel mondo delle imprese.
Più controverso è il caso della Garanzia giovani, misura europea di sostegno ai giovani fondata su politiche attive di istruzione, formazione e inserimento nel mondo del lavoro. Il Piano tuttavia sembra scontare alcuni ritardi sia in termini di attuazione (e pagamenti) sia in termini di sensibilizzazione del potenziale bacino di utenza.
Non ancora sufficientemente garantiti, i giovani italiani fanno i conti con un mismatch tra domanda e offerta di lavoro che il Piano Garanzia giovani non sembra risolvere.
L’Italia stenta a intraprendere soluzioni efficaci e investe ancora troppo poco nelle politiche di inserimento, come sottolinea Roberto Rizza in questo video:
Quello della formazione è dunque un tema in continua evoluzione, con radici storiche remote e articolate. Il problema era centrale già nei primi del Novecento: ne è una dimostrazione il ricco dibattito relativo all’istruzione professionale che interessò l’Italia durante l’età giolittiana. Come si formano i professionisti del futuro? E’ una domanda che chiunque voglia prevenire le crisi propone alla discussione pubblica. Esemplari, in questo senso, le iniziative della Società Umanitaria e il pensiero del suo Segretario generale, Augusto Osimo, secondo cui solo rinnovando le condizioni dell’insegnamento professionale si può dare una chance a un sistema produttivo altrimenti bloccato.
A quasi un secolo dal discorso di Osimo, esperti ed economisti ancora si interrogano sul segreto della produttività: capitale e lavoro fanno crescere il PIL, ma più le economie diventano mature, più diventano fondamentali la tecnologia, la conoscenza, l’investimento in capitale umano.
E questo risulta vero soprattutto in un’epoca di transizione in cui ai lavoratori è richiesto il rinnovamento di molte competenze tradizionalmente associate alle professioni della old economy e che spesso, oggi, risultano obsolete. In questo quadro, i giovani – entrati nell’età adulta attraverso la mediazione di internet e la tecnologia – possono giocare un ruolo decisivo, proponendosi come veicolo di innovazione sia per quanto riguarda il mondo delle imprese sia per quanto riguarda il mercato del lavoro.
Forse proprio la combinazione tra le nuove competenze digitali e i limiti strutturali con cui si misurano i giovani che si affacciano al mercato del lavoro può agevolare il passaggio a una new economy che sia anche una we economy declinabile in chiave collaborativa. Fenomeni come la sharing economy o le numerose pratiche di social innovation configurano oggi modelli in grado di conquistarsi un ruolo chiave nella ridefinizione del mondo del lavoro. Questi processi stanno liberando risorse ed energie, spesso latenti nella società, in grado di indicare una strada ancora tutta da percorrere. Una sfida per il futuro del lavoro e dell’economia che apre nuovi spunti di riflessione e di ricerca.