Il 23 marzo 1919 a Milano, al primo piano di Palazzo Castani in Piazza San Sepolcro, si tiene una riunione alla quale intervengono circa 200 persone, alcune con un intento militante, altre solo per curiosità.
Il tenente Renato Barabandi, classe 1893, tenente del III Reparto d’assalto e redattore del settimanale “L’Ardito”, tiene una sorta di registro dell’incontro. Riporta con cura l’anagrafica dei partecipanti: i tre quarti ha meno di quarant’anni, trenta di loro hanno meno di 21 anni, quasi la metà proviene da aree politiche democratiche e di estrema sinistra (anarchici, socialisti, sindacalisti rivoluzionari). Sono del tutto assenti i nazionalisti, che diffidano dell’interventismo rivoluzionario, e le donne, all’epoca praticamente escluse dalla vita politica. Il discorso d’apertura lo tiene Benito Mussolini, direttore del quotidiano Il Popolo d’Italia, trentasei anni.
Due le parole d’ordine: identità e riforme. Da una parte il movimento di giovani valorosi che si sta costituendo si propone come l’unico vero erede del socialismo; dall’altra il suo programma intende riformare completamente la società e l’economia, con l’introduzione delle pensioni, dell’orario di lavoro e il rifiuto dell’intervento dello Stato in economia, nonché la politica, con l’abolizione del Senato e il suffragio universale maschile e femminile.
Il 23 marzo 1919 è la data nella quale viene fondato il Movimento dei Fasci italiani di combattimento, il seme da cui da li a poco (novembre 1921) sarebbe nata un’esperienza ben diversa: il Partito Nazionale Fascista.
Del pragmatismo iniziale infatti rimarrà ben poco, solamente l’ideologia del nuovo contro il vecchio e la smania di potere, a tutti i costi. Questo tradimento rispetto all’energia riformista iniziale muterà radicalmente anche la composizione degli aderenti.
Renato Barabandi, l’Ardito verbalizzatore, nel gennaio 1920 deciderà di ritirarsi a vita privata e di assumere posizioni antifasciste. E così molte altre figure politiche, tra cui profili notevoli dell’antifascismo storico come Pietro Nenni che, pur non presente in Piazza San Sepolcro, era stato uno dei fondatori del movimento.
Dunque, prima conclusione: il fascismo come lo conosciamo, ovvero regime caratterizzato da alcuni tratti essenziali – primato del partito unico, culto del capo, eliminazione delle opposizioni e messa a tacere delle minoranze – non è nato già fatto. Si è fatto nel tempo.
Non andava in cerca di un Duce, ma esprimeva la necessità di riprendere in mano le sorti del presente. Costruirà il culto del Duce e farà marciare la Nazione in un eterno presente svuotato delle basi del pluralismo, come metodo e come ideale. Il principio cardine, sul quale si sviluppa l’affermazione e il radicamento del potere fascista, è la negazione della dinamica pubblica che definiamo “democrazia” e quella rapida e inesorabile soppressione delle libertà, che lo trasformerà presto in dittatura.
Non vi è spazio per il confronto delle idee, per la discussione e la diversità: si ricorre invece alla pratica plebiscitaria e si costruisce un sistema elettorale che riduce a pura testimonianza il ruolo delle
opposizioni, fino ad eliminarle del tutto. Non vi è spazio nemmeno per il cittadino elettore, che passa dall’essere il centro d’interesse prioritario dell’azione politica, ardita e riformista, a spettatore passivo e plaudente di una scena che diviene culto.
Benito Mussolini lo afferma espressamente nel marzo del 1923, a pochi mesi dalla Marcia su Roma:
“Il fascismo che non ha temuto di chiamarsi reazionario quando molti dei liberali odierni erano proni davanti alla bestia trionfante, non ha oggi ritegno alcuno di dichiararsi illiberale e antiliberale. Il fascismo non cade vittima di certi trucchi dozzinali. Si sappia dunque, una volta per tutte, che il fascismo non conosce idoli, non adora feticci: è già passato e, se sarà necessario, tornerà ancora tranquillamente a passare sul corpo più o meno decomposto della Dea Libertà”.
La torsione prevaricante della politica si riflette anche nell’alterazione della retorica: la tecnica è quella di non aprire alcun spazio al dubbio, di affermare verità nelle quali il popolo possa identificarsi, di svuotare quindi la politica delle argomentazioni per ridurre qualsiasi ragionamento a slogan.
E l’innovazione sta anche negli strumenti con i quali gli slogan vengono veicolati, e imposti. Più importante della parola scritta è la parola detta, più precisamente la parola gridata, e ancora più precisamente la parola amplificata. Per raggiungere le piazze, le folle, le menti con un messaggio che non richieda alcuna comprensione e elaborazione ma presenza e obbedienza.
Una violenza retorica di massa che ben presto diviene violenza fisica: la brutalità fascista condizionava pesantemente gli avversari, sottoposti alla minaccia costante di azioni di forza e intimidazioni che da un momento all’altro si traducevano in vie di fatto. È lo squadrismo come mentalità e come modalità di fare politica: un’esaltazione della violenza, della virilità, delle virtù marziali che fonda uno stile e segna un’epoca. Non solo azione armata ma, come ricorda Emilio Gentile, “un vistoso apparato di riti, miti, simboli, inni e canti” teso a reprimere ogni forma di dissenso politico e sociale.
Prepotenza e coercizione non colpiscono solo gli avversari politici, ma fa presto la sua comparsa la pratica discriminatoria, razzista, distruttiva contro le culture altre. I primi a farne le spese saranno gli sloveni di Trieste il 13 luglio 1920, quando fascisti e nazionalisti daranno l’assalto al Narodni Dom, la casa della cultura slovena. Quell’atto, ha scritto lo storico Renzo De Felice, segna in maniera incontrovertibile il vero battesimo dello squadrismo organizzato.
Quando oggi parliamo di fascismo e ne evochiamo i ritorni regressivi non guardiamo tanto ad un dato momento storico quanto ad un modo di intendere e praticare la politica. Se nel centesimo anniversario della riunione del 23 marzo 1919 in Piazza San Sepolcro a Milano vogliamo affermare con forza Mai più fascismo intendiamo rifarci a quella che consideriamo una priorità del nostro presente: conoscere la storia che ci precede, tenerne vivo il racconto, portare tracce, echi e testimonianze a chi ha la responsabilità di guidare il cambiamento nel quale siamo immersi e si è preso l’impegno, democraticamente, di proiettarci in un futuro fatto di opportunità, diritti e libertà.
La storia non si ripete, forse “fa le rime”, ma la differenza la fanno le persone, con le loro passioni, le loro parole, il loro impegno. Se questo è il cardine di quanto definiamo democrazia allora non possiamo che ribadire, nella Milano medaglia d’oro della resistenza e nell’Italia che si affaccia alle prossime elezioni europee: “mai più fascismo”.