Articolo di approfondimento che riassume i temi e i risultati del workshop “Più vicini meno soli” di Agenda Open Lab.
In tempi di rischio epidemico e quarantena le reti personali sembrano acquisire nuova importanza. La chiusura dei luoghi di aggregazione pubblici, la limitazione degli spostamenti e l’isolamento dal posto di lavoro vissuta da molti e molte mettono a nudo il nostro bisogno di relazioni. Avvertiamo la mancanza di socialità nella lontananza di persone care cui raccontare la nostra giornata e nell’impossibilità di stare in spazi affollati, ricchi di voci e movimenti, ma il bisogno si concretizza anche in sfide concrete e drammatiche. A chi chiedere consiglio e aiuto in caso di necessità? Come fare per avere accesso al cibo senza poter uscire di casa? Il poter contare su reti sociali (familiari, parentali, amicali, di vicinato) sembra oggi più importante che mai, eppure queste non sono un bene da dare per scontato.
Secondo il rapporto annuale Istat, nel 2018 il 19% degli italiani dichiarava di “non avere nessuno su cui poter contare”. Questa mancanza diventa più accentuata con il crescere dell’età – pari al 26% nella fascia di età compresa fra i 65 e i 74 anni e al 28% in quella dai 75 in avanti. La rarefazione delle reti personali si riflette nella contrazione delle reti familiari. Nel 2018, secondo i dati Istat, una famiglia su tre era composta da una sola persona, una percentuale cresciuta rispetto a venti anni fa, a metà degli anni Novanta, quando le famiglie unipersonali erano una ogni quattro. La rilevanza della popolazione “sola”, almeno per quanto riguarda la dimensione del gruppo familiare, è particolarmente evidente in una grande città come Milano, dove nel 2018 il 45% delle famiglie era composto da una sola persona, tredici punti percentuali in più rispetto alla media nazionale del 32%.
I cambiamenti nella conformazione delle reti personali hanno un impatto importante sulla nostra società, non solo nei momenti di crisi come quelli di questi giorni. È senz’altro vero che non avere una forte rete relazionale non elimina la nostra capacità di mobilitare risorse sociali. È controintuitivo, ma molto dell’aiuto che riceviamo ogni giorno arriva da persone che non fanno parte della nostra rete. Come dimostrato dal sociologo statunitense Mario Luis Small nel suo libro Someone to Talk To (Oxford University Press, 2017), quando le persone sentono il bisogno di condividere informazioni personali spesso lo fanno con perfetti sconosciuti – una persona a caso su un aereo, il loro parrucchiere o uno sconosciuto in una sala d’attesa. È importante anche sottolineare, come ricorda Federica Vittori, responsabile dell’area empowerment e dei progetti territoriali dell’agenzia di trasformazione culturale Che Fare, che una caratteristica di una grande città come Milano è proprio la possibilità di vivere da individui, liberi dai vincoli e dalle costrizioni che i legami familiari possono esercitare in comunità più piccole e più tradizionali. Tuttavia, l’assenza dei legami sociali forti, come i sociologi chiamano i legami familiari, impone una rinnovata attenzione a come sono strutturati i nostri sistemi di welfare.
Siamo abituati a pensare che la famiglia sia la cellula primaria della società, sottolinea Giuliana Costa, sociologa e docente presso il Politenico di Milano, ma oggi non possiamo dare per scontato che la famiglia ci sia e che sia in grado di esercitare le funzioni di cura che ci aspettiamo. Bisogna allora lavorare, continua Giuliana Costa, per dare la possibilità alle persone di stringere legami al di fuori della famiglia e allo stesso tempo insegnare a chiedere aiuto ai servizi istituzionali in caso di bisogno.
Oltre al lavoro culturale che questo obiettivo comporta è opportuno ripensare alle forme di erogazione del welfare e ai suoi stessi obiettivi. Occorre anche ripensare al ruolo degli spazi pubblici come, ad esempio, le biblioteche. Questi spazi, sottolinea Marco Ciorli, dottorando in sociologia presso l’Università Statale di Milano e l’Università di Torino, potrebbero avere un ruolo importante nella creazione di capitale sociale, ovvero, nel creare quella rete relazionale che garantisce l’accesso a risorse indispensabili ad ognuno di noi, per il loro ruolo di spazio “neutro”, dove è possibile l’incontro di persone di ceti sociali diversi. Occorre però ripensare alle competenze di chi presidia questi spazi, ovvero i bibliotecari, e a quali strumenti e servizi complementari possono renderli più accessibili e frequentati.
A Milano sono diverse le iniziative che cercano di offrire risposte alle domande sollecitate dalla trasformazione delle reti personali. Da un lato ci sono iniziative sviluppate all’interno del Terzo Settore. Una di queste è DAR=Casa, cooperativa di abitazione a proprietà indivisa che dai primi anni Novanta offre case in affitto, riservate a chi fa fatica a sostenere un affitto nel mercato libero e accompagnate da un servizio di gestione sociale, attività che include l’ascolto delle esigenze delle famiglie a cui vengono affidate le abitazioni, la diffusione di informazioni sui servizi disponibili in città e nella zona di residenza, la mediazione dei conflitti delle relazioni tra vicini di casa. Come racconta la vicepresidente della cooperativa, Marianna Taborelli, il progetto Abitare Solidale, che offre un alloggio a prezzi sostenibili a giovani, studenti o lavoratori precari in cambio della partecipazione in attività di vicinato solidale rivolto agli abitanti anziani del quartiere, è un esempio di come si possa rispondere ai problemi di diversi gruppi sociali con un solo progetto: il bisogno di alloggio dei giovani e la solitudine degli anziani.
Festa di cortile del progetto abitativo di Dar=Casa, Le 4 corti nel quartiere Stadera (Milano)
Un altro esempio è la Fondazione Welfare Ambrosiano, ente no-profit che, attraverso una rete di 22 sportelli distribuiti nella provincia di Milano, offre sostegno ai lavoratori milanesi e ai rispettivi nuclei familiari che vivono situazioni di disagio e corrono il rischio di scivolare in condizioni di povertà fornendo accesso a servizi quali affitti a canone agevolato, microcredito, e mentoring d’avvio d’impresa. Secondo il direttore generale Roberto Guerinoni, quello che rende la fondazione un ente innovativo è il suo modello che, evitando un approccio assistenziale, riesce a fornire supporto a una porzione di popolazione che non richiede una presa in carico ma necessita un accompagnamento, un modello basato sulla corresponsabilità e la ricerca comune di una soluzione ai problemi individuali.
Fondazione Welfare Ambrosiano, incontro con Giuseppe Sala, Sindaco di MilanoDall’altro lato ci sono le iniziative sviluppate dall’amministrazione comunale, come ad esempio WeMi, la piattaforma cittadina dei servizi domiciliari sviluppata dal Comune di Milano. Come raccontato da Stefano Errico, l’iniziativa cerca di creare connessioni fra le iniziative di welfare e i cittadini che ne hanno bisogno. La mancanza di legami a Milano, sottolinea Errico, non è solo fra persone ma anche fra persone e servizi – WeMi cerca di rendere i servizi esistenti visibili anche a chi non è già e nemmeno si percepisce come possibile utente di servizi sociali e per questo motivo non ricerca un servizio che pure potrebbe risolvere alcuni suoi problemi concreti.
Lo spazio WeMi nel caffè letterario Rab (Milano)
L’accesso a questi servizi, sottolinea Jacopo Franchi, autore del libro Solitudini Connesse (Agenzia X, 2019), è reso forse anche più complicato dai social media contemporanei, uno strumento che, nella narrazione condivisa, dovrebbe favorire la disintermediazione e l’accesso diretto all’informazione ma che, in realtà, propone una forma di intermediazione algoritmica, di cui gli utenti spesso non sono a conoscenza e i cui impatti non sono per il momento ancora chiari, imponendo quindi una riflessione sulla necessità di sviluppare dei social media pubblici e trasparenti.
Quindi, come rispondere ai nuovi bisogni che la nostra società si troverà ad affrontare? La soluzione, suggeriscono diversi partecipanti al workshop, non è tanto inventare nuove risposte quanto rendere più efficaci quelle che già esistono. E, se i problemi che intravediamo all’orizzonte emergono dall’erosione delle reti personali, la soluzione potrebbe essere investire in un’altra rete: quella fra le amministrazioni pubbliche, gli imprenditori del sociale, le associazioni, i gruppi informali e i singoli cittadini che oggi offrono servizi di aiuto a chi è solo.
Creare una rete di questo tipo, sottolinea Guerinoni, significa adottare un’ottica di lungo periodo che investa nelle sinergie fra i servizi esistenti. Ad esempio, mettere in comune le banche dati dei diversi attori che operano nel sociale o, per fare un altro esempio, prevenire la moltiplicazione dell’offerta di servizi che già esistono, collaborando nell’indirizzare chi ha bisogno a chi potrà risolvere il suo problema nella maniera più efficace. Un ruolo chiave nel determinare le risposte che il welfare sarà in grado di offrire in futuro spetta all’attore pubblico.
Infatti, sottolinea Claudio Bossi della cooperativa La Cordata, è chi progetta appalti e bandi che può determinare un passaggio da un paradigma che seleziona sulla base dell’offerta dal costo più contenuto ad uno che selezioni sulla base del valore aggiunto che gli attori coinvolti sono in grado di generare. In quest’ottica, continua Bossi, il modo in cui l’attore pubblico può favorire la creazione di una nuova rete fra attori del sociale è attraverso la coprogettazione, una modalità che valorizza il contributo sussidiario dei privati e del mondo dell’associazionismo, rimettendo però al centro il ruolo di governo dell’attore pubblico.
In un momento in cui i legami forti tendono ad allentarsi, la volontà di continuare a godere dei vantaggi che una società libera dalle costrizioni che le strutture di parentela esercitavano sui singoli nelle società tradizionali e in cui sono aperte prospettive di realizzazione individuale impensabili in una società fortemente gerarchica può richiedere di tornare ad investire nella comunità, una comunità liberale in cui gli individui non siano stranieri gli uni agli altri pure nella piena accettazione della diversità religiosa, culturale, di stili di vita e di visioni del mondo, e in cui un welfare rinnovato metta a disposizione risorse e crei canali di comunicazione per chi chiede e chi offre cura.