Propongo qui alcune riflessioni intorno al tema delle solitudini e delle sconnessioni tra persone. Il mio punto di vista è quello dell’impresa sociale, che pratico da ormai quasi trent’anni nella metropoli milanese, e il tema di conseguenza è quello ampio delle politiche di welfare.
Riprendo alcuni elementi, ormai entrati nella letteratura sociale ed economica, che delineano la situazione di spaesamento relazionale che stiamo attraversando, a partire dal rapporto tra economia e società, che ha visto nel turbo-tecno-capitalismo, nella finanziarizzazione dell’economia, nel neoliberismo e nella dottrina del cieco consumatore l’insediamento del processo di individualizzazione e frammentazione sociale. Il modello economico, oggi entrato prepotentemente in crisi, ha plasmato le politiche di sviluppo imprenditoriale, di organizzazione del lavoro e della produzione, le politiche urbanistiche, di welfare, ambientali, ecc., oscurando, cancellando, l’attore principale: la persona e le comunità. Come l’effetto del diserbante, assistiamo a un processo di sterilizzazione delle capacità relazionali individuali, famigliari, di gruppo e della comunità. Caduti i baluardi della socializzazione (e protezione) primaria, la famiglia dispersa nel territorio-mondo, i luoghi del lavoro, identità e appartenenza al proprio territorio, i processi demografici e via discorrendo, ci ritroviamo sempre più soli, impauriti dal nostro futuro, in assenza di quel rifugio dove riporre le nostre fragilità e lenire le nostre paure.
In termini ancora generali, si leggono le spinte del bisogno ossessivo di relazione e significato. Lo ritroviamo nella cosiddetta sharing economy, nelle nuove forme – del tutto pioneristiche – dell’abitare, nella ricerca di opportunità di esperienze dense di significati (si pensi al turismo responsabile, al commercio esperienziale e di prossimità).
Provo quindi a delineare una traccia a partire dalle politiche di welfare. Un sistema di welfare state, come l’abbiamo conosciuto, fondato sulla cultura della “domanda” di servizi, caratterizzato da una struttura burocratica-prestazionale, di qualità tecnica, di iper-specializzazione, di frazionamento verticale dei bisogni e della conseguente frazionata loro risposta. Di chirurgia sociale. È un welfare che ha saputo garantire servizi di qualità tecnico/prestazionali, disegnati con millimetrica precisione dentro un quadro di normative e procedure rigido e standardizzato. Un welfare tecnologico di servizi “consumerizzati”. Questo modello non regge più e non solo per il suo alto costo economico, ma anche per aver prodotto una de-responsabilità collettiva (della comunità), deprimendo le preziose risorse come la fiducia, la responsabilità, la solidarietà.
In questo quadro, a tinte fortemente fosche, la risposta non può che essere nel ridisegnare il modello di welfare finora praticato. Nell’armonizzare le politiche di welfare, abitative, di sviluppo urbano, di sviluppo economico ed ambientale. Un modello che, a partire dal ridisegno della cornice di riferimento, poggia le sue premesse su un cambiamento dei pilastri di riferimento. Qui ne segnalo qualcuno che, dalla mia esperienza, mi risulta evidente:
– La necessità di socializzare i bisogni e le risorse (riconoscerli, condividerli, come gruppo, comunità, di persone) per costruire risposte capaci di utilizzare la molteplicità di beni non monetari a disposizione. Quindi da una valorizzazione e riqualificazione dei tempi di vita, della conoscenza, delle competenze, delle capacità, dalle risorse implicite o abbandonate. In una parola, attivare processi di coesione sociale, il cui indicatore sarà la qualità e quantità di interazioni tra le persone in un determinato contesto comunitario e/o territoriale.
– L’urgenza di attivare la responsabilità collettiva (che parte dalla responsabilità personale), che ci impone di guardare al futuro non solo con lo sguardo dell’interesse personale del “tanto non mi succederà, tanto non ne avrò bisogno”. Perché, prima o poi, ci succederà, perché da soli non avremo le risorse sufficienti per far fronte al bisogno (pensiamo solo al feroce cambiamento demografico dei prossimi trent’anni, chi si prenderà cura della solitudine degli anziani?). Questa responsabilità può trovare forma organizzata in un nuovo mutualismo e mutualità. E la storia del nostro paese ha in sé le pratiche della mutualità e del cooperativismo.
– La necessità di creare nuove alleanze in una logica di sussidiarietà circolare e territoriale. La partecipazione nella costruzione del benessere da parte di tutti i soggetti abitanti un territorio/comunità. L’ente locale, l’impresa, il commercio, l’impresa sociale, l’associazionismo, e via discorrendo fino al nucleo più piccolo: la persona.
– Ma si esprimono sempre di più domande e pratiche che pongono al centro i sistemi collaborativi, il bisogno di relazioni, di senso e significati. Mi riferisco, a titolo di esempio, a tutto ciò che oggi è premesso dal “co-“. Co-housing, co-working, co-living, dalle pratiche delle social street, dello sharing, degli orti urbani condivisi, dei gruppi di acquisto, dei mercati del baratto fino a nuove concettualizzazioni come la generatività (territori, comunità, imprese: generative). Oggi più che mai l’intensità e il significato delle relazioni è il bene più ricercato. Questa è la leva, il patrimonio che viene rivitalizzato, che trova nuova vita in nuove forme. Mette in circolo energie e risorse finora sopite e assopite nell’individualismo consumeristico. Non depaupera, non consuma, anzi, genera energia, genera benessere nelle persone.
Le trasformazioni sociali di questi anni ci obbligano a cambiare rotta proponendo una politica capace di accompagnare l’attuale modello di welfare, incentrato sulla risposta personalizzata al bisogno, verso un approccio che consideri il territorio/comunità come luogo di sintesi e integrazione delle diverse politiche di governo della città e di benessere dei suoi abitanti.
È necessario inserire il trattamento dei bisogni “specifici” all’interno di un’ottica complessiva e trasversale che attivi e consolidi i legami sociali della collettività nel suo insieme, in una prospettiva di community welfare in cui il benessere delle persone lo si costruisce a partire dalla socializzazione dei bisogni e l’integrazione delle risorse presenti nella comunità locale, siano esse rappresentate da persone, famiglie, gruppi informali, gruppi organizzati e istituzioni.