Si propone qui un estratto dal volume Guasto è il mondo di Tony Judt e pubblicato da Laterza. Ringraziamo l’Editore per la gentile concessione.
Se la sinistra vuole tornare a essere presa sul serio, dovrà trovare una voce propria. Le ragioni per indignarsi non mancano: l’aumento delle disuguaglianze di reddito e di opportunità; le ingiustizie di classe e di casta; lo sfruttamento economico in patria e all’estero; la corruzione, il denaro e i privilegi che occludono le arterie della democrazia. Ma non basta più individuare i difetti del «sistema» e poi ritirarsi pilatescamente, indifferenti alle conseguenze. L’irresponsabile pavoneggiamento retorico dei decenni passati non ha portato benefici alla sinistra.
Siamo entrati in un’epoca di insicurezza: economica, fisica e politica. Il fatto che ne siamo in gran parte inconsapevoli non è di grande conforto: pochi, nel 1914, potevano prevedere il collasso completo del loro mondo e le catastrofi economiche e politiche che seguirono. L’insicurezza genera paura. E la paura – paura del cambiamento, paura del declino, paura degli estranei e di un mondo a cui non siamo abituati – corrode la fiducia e la dipendenza reciproca su cui si fondano le società civili.
Qualunque cambiamento è distruttivo. Abbiamo visto come lo spettro del terrorismo sia sufficiente a seminare lo scompiglio in democrazie stabili. I cambiamenti climatici avranno conseguenza ancora più drammatiche. Le persone saranno costrette a far ricorso alle risorse dello Stato, si rivolgeranno ai loro leader e rappresentanti politici per chiedere protezione: le società aperte torneranno a ripiegarsi su sé stesse, sacrificando la libertà in nome della «sicurezza». La scelta non sarà più fra Stato e mercato, ma fra due tipi di Stato. Spetta a noi, dunque, riconsiderare il ruolo del governo. Se non lo faremo noi, lo faranno gli altri.
[…] In America del Nord e in Europa occidentale ci culliamo nell’idea che democrazia, diritti, liberalismo e progresso economico siano inestricabilmente legati fra loro. Ma per la maggior parte delle persone, la legittimità e la credibilità di un sistema politico poggiano non tanto sulle pratiche liberali o sulle forme democratiche, bensì sull’ordine e sulla prevedibilità. Un regime autoritario stabile, per la maggioranza dei cittadini, è molto più desiderabile di uno Stato democratico allo sbando. Perfino la giustizia probabilmente conta meno della competenza amministrativa e del mantenimento dell’ordine nelle strade. Se sarà possibile avere la democrazia, la avremo. Ma innanzitutto vogliamo sentirci sicuri. Con il crescere delle minacce globali, crescerà inevitabilmente anche il desiderio di ordine.
Le implicazioni, anche per le democrazie storiche, sono significative. In assenza di forti istituzioni di fiducia reciproca, di servizi affidabili forniti da un settore pubblico provvisto di finanziamenti adeguati, le persone cercheranno sostituti provati. La religione (cioè fede, comunità e dottrina) probabilmente godrà di un certo rilancio, anche nell’Occidente laico. L’altro, a prescindere dalla definizione che se ne dà, verrà visto come una minaccia, un nemico, una sfida. Come in passato, la promessa di stabilità rischia di confondersi con i comfort della protezione. Se la sinistra non avrà qualcosa di meglio da offrire, non ci sarà da meravigliarsi se gli elettori staranno a sentire chi fa loro promesse del genere.
Dobbiamo tornare a guardare le risposte che la generazione dei nostri nonni diede a sfide e minacce analoghe a queste. La socialdemocrazia in Europa, il New Deal e la Great Society degli Stati Uniti, furono risposte esplicite a quei problemi. Oggi pochi in Occidente riescono a concepire un collasso completo delle istituzioni liberali, la totale disintegrazione del consenso democratico. Ma quello che sappiamo della seconda guerra mondiale (o della ex Iugoslavia) dimostra con quanta facilità qualsiasi società possa precipitare in incubi hobbesiani e di atrocità e violenze senza freno. Se vogliamo costruire un futuro migliore, bisogna partire da una valutazione accurata della facilità con cui perfino democrazie dalle basi solide possono colare a picco. Per dirla in modo nudo e crudo, se la socialdemocrazia ha un futuro, lo avrà in quanto socialdemocrazia della paura.
In questo senso, la prima cosa da fare è ricordarci delle conquiste del XX secolo, e delle conseguenze verosimili di una corsa scriteriata al loro smantellamento. Può sembrare meno eccitante rispetto al pianificare grandi avventure radicali per il futuro, e forse lo è. Ma come ha osservato saggiamente il politologo britannico John Dunn, il passato è meglio illuminato del futuro: lo vediamo con più chiarezza.
La sinistra ha qualcosa da conservare, e perché non dovrebbe essere così? Da un certo punto di vista, il radicalismo ha sempre avuto a che fare con la conservazione di un passato prezioso. Nell’ottobre del 1647, durante i Dibattiti di Putney, nel momento più grave della guerra civile inglese, rimase celebre l’ammonimento del colonnello Thomas Rainsborough ai suoi interlocutori: «L’essere più povero che vi sia in Inghilterra ha una vita da vivere quanto il più grande […;] ogni uomo il quale ha da vivere sotto un governo [deve] prima con il suo consenso accettare quel governo». Rainsborough non stava vagheggiando uno stucchevole futuro egualitario, stava evocando la convinzione, largamente diffusa, che agli inglesi fossero stati sottratti i loro diritti e che questi diritti andassero rivendicarti.
Analogamente, nella Francia e nella Gran Bretagna dei primi dell’800, la rabbia dei radicali nasceva in gran parte dalla convinzione che esistessero regole morali nella vita economica, e che queste regole fossero state calpestate dal nuovo mondo del capitalismo industriale. Era questa sensazione di perdita (e i sentimenti rivoluzionari che fomentava) che alimentava le energie politiche dei primi socialisti. La sinistra ha sempre avuto qualcosa da conservare.
Noi consideriamo le istituzioni, le leggi, i servizi, e i diritti che abbiamo ereditato dalla grande epoca delle riforme del Novecento come qualcosa di scontato. È ora di ricordarci che tutte queste cose nel 1929 erano assolutamente inconcepibili. Noi siamo i fortunati beneficiari di una trasformazione che ha avuto una portata e un impatto senza precedenti. C’è molto da difendere.
Inoltre, la socialdemocrazia “difensiva” ha una rispettabilissima tradizione. In Francia, nei primi anni del XX secolo, il leader socialista Jean Jaurès esortava i suoi colleghi a sostenere i piccoli negozianti e gli artigiani qualificati schiacciati dall’ascesa dei grandi magazzini e della produzione di massa.
Il socialismo, nella sua ottica, non consisteva semplicemente nel proiettarsi in avanti verso un futuro postcapitalistico: consisteva anche, e soprattutto, nel proteggere gli indifesi e coloro che erano minacciati di estinzione economica.
Normalmente la “sinistra” non viene associata alla prudenza. Nell’immaginario politico della cultura occidentale, “sinistra” denota qualcosa di radicale, distruttivo e innovatore. Ma in realtà esiste uno stretto rapporto tra istituzioni progressiste e spirito di prudenza. La sinistra democratica spesso ricava le sue motivazioni dal sentimento di una perdita: a volte la perdita di un passato idealizzato, a volte la perdita di interessi morali, implacabilmente accantonati per favorire interessi privati. Sono i liberisti dogmatici che negli ultimi due secoli hanno fatto propria l’idea incrollabilmente ottimista secondo cui qualsiasi cambiamento economico sia per il meglio.
È la destra l’erede dell’ambizioso impulso modernista a distruggere e innovare il nome di un progetto universale.
Dalla guerra in Iraq al desiderio irrealizzato di smantellare la scuola pubblica e i servizi sanitari, al progetto decennale di deregulation finanziaria, la destra politica, da Thatcher e Reagan a Bush e Blair, ha reciso quel legame tra conservatorismo politico e moderazione sociale che aveva garantito il suo successo da Disraeli a Heath, da Theodore Roosevelt a Nelson Rockefeller.
Se è vero, come osservò una volta Bernard Williams, che la migliore giustificazione della tolleranza sono “i danni evidenti dell’assenza di tolleranza”, allora più o meno lo stesso si può dire per la socialdemocrazia e lo Stato sociale. È difficile per i giovani capire come fosse esattamente la vita prima della loro generazione. Ma se non siamo ancora in grado di ascendere al livello di una narrazione giustificatoria, se ci manca la volontà di tradurre in teoria i nostri istinti migliori, ricordiamoci almeno dei costi, largamente documentati, dell’abbandono di tale narrazione.
I socialdemocratici sono tradizionalmente inclini alla modestia, una qualità politica sopravvalutata. Dobbiamo vergognarci un po’ meno degli errori passati e sottolineare maggiormente i successi. Il fatto che questi successi siano sempre rimasti incompleti non dovrebbe turbarci. Almeno una cosa dovremmo averla imparata dal Novecento: più una risposta è perfetta, più le conseguenze sono terrificanti.
Miglioramenti graduali rispetto a circostanze insoddisfacenti sono il massimo che possiamo sperare, e probabilmente tutto quello che vale la pena di perseguire. Altri hanno passato gli ultimi trent’anni a smantellarli e destabilizzarli metodicamente: questo dovrebbe farci arrabbiare molto più di quanto siamo arrabbiati. E dovrebbe anche preoccuparci, se non altro per ragioni prudenziali: perché abbiamo avuto tanta fretta di distruggere le dighe laboriosamente erette dai nostri predecessori? Siamo tanto sicuri che non ci siano inondazioni in arrivo? Abbandonare gli sforzi di un secolo equivale a tradire coloro che sono venuti prima di noi e anche le generazioni che ci seguiranno. Sarebbe bello – ma fuorviante- promettere che la socialdemocrazia, o qualcosa di simile alla socialdemocrazia, rappresenta il futuro che vorremmo per noi in un mondo ideale. Ma questo vorrebbe dire tornare a una narrazione screditata. La socialdemocrazia non rappresenta un futuro ideale, non rappresenta nemmeno un passato ideale. Ma fra le opzioni che oggi abbiamo a disposizione, è meglio di qualunque altra cosa.