Università degli studi di Pavia

In queste settimane drammatiche uno degli aspetti immediatamente percepibili del sentire degli italiani è stata l’esposizione del tricolore ai balconi e alle finestre, spesso accompagnata dal motto “ce la faremo”. È stato come se, arrivati sull’orlo di un abisso dove tanti, troppi, sono precipitati, e messi di fronte a un nemico sconosciuto, feroce e invisibile, tutti insieme avessimo naturalmente cercato conforto e protezione sotto la nostra bandiera, principale simbolo nazionale e identitario. La paura è stata certamente il motivo alla base di tale reazione. Ma forse c’è dell’altro.

Si è fatta avanti un’idea di appartenenza, di destino comune, anche di orgoglio, rafforzata dalla costatazione di comportamenti insolitamente responsabili, rispettosi e disciplinati. Anche non va esclusa affatto la probabilità di un ritorno agli usati costumi e persino di ulteriori derive nazionaliste e  sovraniste (prima gli italiani, fuori gli extracomunitari, l’Europa nemica….), al netto della pratica di insulti, minacce e fake news propagate attraverso i social,  io credo di vedere in  ciò che sta accadendo la spia del fatto che, forse, anche in Italia si possa finalmente innestare l’esprit republicain o, detto in altro modo, che gli italiani introiettino e pratichino il loro patriottismo costituzionale. Il 2 giugno 2020 dovrebbe (potrebbe) assumere questo significato. La festa nazionale è un rito civile e come tale una forma di azione collettiva, ripetitiva e cadenzata, che serve a preservare e rinnovare l’unità e l’identità della comunità nazionale, attraverso il riferimento a  momenti del passato proiettandoli nel presente e nel futuro,  ma adesso più che mai,  alla luce della prova che abbiamo affrontato e dell’esperienza che stiamo ancora vivendo, può assumere nuova e particolare  pregnanza. Tre binomi dovrebbero intrecciarsi nella celebrazione: Tricolore e Repubblica, Tricolore e Costituzione, Tricolore e Europa.

 

Forse uno sguardo al passato può essere utile.

Per quanto riguarda il tricolore bisogna ricordare che, da quando per la prima volta è stato utilizzato (allora ancora a fasce orizzontali), il 7 gennaio 1797 a Reggio Emilia nel corso del Congresso cispadano, per essere poi adottato nell’estate successiva come vessillo della Repubblica cisalpina,  è stato un simbolo polisemico, espressione di valori e finalità politiche diverse e persino opposte. La bandiera verde, bianco e rosso la issava il re Carlo Alberto di Savoia nel passaggio del Ticino al Gravellone, il 23 marzo 1848, iniziando le guerre d’indipendenza nazionale nel segno della monarchia, ma la sventolarono anche i patrioti repubblicani nelle Cinque giornate di Milano e, l’anno dopo, nella difesa della Repubblica Romana. Durante la prima fase del Risorgimento si opposero due tricolori. Il contrasto si giocava al centro, sul fondo bianco: lo scudo rossocrociato dei Savoia oppure il motto “Dio e Popolo” di Mazzini. Per tutto l’arco di vita dell’Italia liberale e anche per tutta la durata del fascismo-regime la bandiera recò l’insegna della casa regnante. Durante la guerra civile del 1943-1945 i partigiani la assunsero come propria ma, fatta eccezione per le brigate badogliane o liberali, estirparono il segno monarchico (talvolta vennero utilizzate le vecchie bandiere con un buco ritagliato nel mezzo), mentre i fascisti della RSI o eliminarono il simbolo del re “traditore” oppure, nella loro “bandiera di combattimento”, vi sostituirono l’emblema dell’aquila con gli artigli poggiati sopra un  fascio. La nostra Costituzione ha definitivamente assegnato al Tricolore un valore univoco, attraverso una descrizione semplice e essenziale nell’art. 12: “La bandiera della Repubblica è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni”.

La festa della Repubblica è entrata a far parte del sistema simbolico-rituale repubblicano insieme alla festa della Liberazione. Le due date, 2 giugno e 25 aprile sono strettamente connesse nel calendario civile italiano. Infatti entrambe affondano le radici della nostra convivenza e della nostra cittadinanza nel comune terreno dell’antifascismo e della Resistenza, della democrazia e della Costituzione repubblicana.

 

Limitandoci alla festa della Repubblica, vale la pena di ricordare che si scelse non il 10 giugno, data della proclamazione ufficiale, ma il 2, data del Referendum istituzionale e delle elezioni dell’Assemblea Costituente, perché quello era stato il giorno della espressione della sovranità popolare.

All’indomani del 2 giugno 1946 i responsabili del governo del Paese, in primo luogo Alcide De Gasperi che ne era il presidente, oltre agli immensi problemi di ricostruzione economica e di ricomposizione del tessuto sociale e morale lacerato, dovettero rifondare l’Italia anche sotto l’aspetto simbolico, cancellare i riti, le immagini, i colori nei quali i cittadini erano stati abituati a riconoscersi, dapprima soltanto nel nome del re, poi nel nome del re e insieme del duce, per fare in modo che gli stessi cittadini si identificassero in una Italia diversa. La Repubblica era una vera novità per gli italiani. Nel corso del Risorgimento ne aveva fiduciosamente parlato Mazzini; poi, durante il Regno dei Savoia, ne alimentò la fiamma il piccolo partito repubblicano; quindi, nel periodo della dittatura, a coltivare l’idea repubblicana furono gli oppositori, costretti al carcere, all’ esilio o al confino; infine, durante la Resistenza gli antifascisti, in larga maggioranza, lottarono guardando a un futuro repubblicano. Ma stiamo sempre parlando di minoranze, per quanto consistenti. In realtà, alla fine della guerra, gli italiani nel loro complesso poco sapevano di Repubblica e di Costituzione. Eppure, completato il faticoso scrutinio referendario e superati gli ultimi ostacoli, quando il risultato definitivo a favore della Repubblica venne reso ufficiale, gli italiani a migliaia e migliaia si riversarono nelle piazze per esultare. Fu subito chiaro che questi cittadini avevano spontaneamente e naturalmente riconosciuta come propria l’Italia repubblicana e infatti immediatamente si levarono richieste affinché l’evento sempre fosse ricordato e celebrato in futuro.  Si può dire che, in qualche modo, il 2 giugno divenne festa nazionale nella coscienza e nel cuore del popolo italiano ancor prima che una apposita legge la dichiarasse tale.

 

A partire dal 1946, per oltre un ventennio la festa del 2 giugno, che non poteva non rispecchiare le condizioni della politica interna e internazionale, ha mantenuto un carattere ufficiale, severo e cerimoniale. Richiamando soltanto in parte il modello del 14 luglio francese che si concludeva con i  balli in piazza, nella capitale i protagonisti principali del rito furono i militari, attraverso l’omaggio all’Altare della patria e soprattutto la grande parata lungo la Via dei Fori Imperiali. Nel 1951 l’ex presidente dell’Assemblea costituente Umberto Terracini lamentò i troppo scarsi riferimenti alla Costituzione. “Non si può celebrare la Repubblica – scrisse – e se non si pensa contemporaneamente alla Costituzione repubblicana”. Dal 1976 e per alcuni anni la parata militare non ebbe luogo. Fu ripresa nel 2000, per significare l’omaggio e la riconoscenza verso i militari italiani impegnati nel mondo in operazioni di pace.

Nel corso del tempo non sono mancate critiche verso il modello rituale del 2 giugno. Si rilevava che la natura protocollare e in qualche modo fredda dalla celebrazione sembrava non renderla occasione e strumento per consolidare il sentimento di appartenenza e di identità degli italiani, nel segno dei valori repubblicani.  A rilanciarne il significato, in rapporto sempre più stretto con la Costituzione, sono venute le sollecitazioni degli ultimi presidenti della Repubblica. Sandro Pertini ha ricollegato strettamente tra loro i tre miti di fondazione: Resistenza, Repubblica, Costituzione. Carlo Azeglio Ciampi, che lungo tutto il corso del suo settennato ha perseguito un chiaro disegno di pedagogia civile per gli italiani, ha coniugato il patriottismo repubblicano con una forte ispirazione europeista. Giorgio Napolitano si è mosso nella loro scia e ha richiamato il “patriottismo costituzionale[ come ]nuova, moderna forma di patriottismo nella quale far vivere il patto [..] di unità nazionale, nella libertà e nella democrazia”.

Sergio Mattarella presiederà questa strana celebrazione, senza sfilata militare né ricevimento nei giardini del Quirinale; ci saranno soltanto le frecce tricolori che arriveranno a Roma dopo avere sorvolato tutta l’Italia, come in un abbraccio. Mattarella potrebbe essere il primo presidente a trovare all’ascolto del suo discorso se non tutti, quantomeno un ampio numero di italiani un po’ diversi, legati da un inedito sentimento di condivisione e di solidarietà e da un nuovo spirito civico, tanto più necessari nel tempo difficile che ci aspetta.

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