Sono tre i fattori principali di cui occorre tener conto nel prendere in esame l’attivazione dei repertori simbolici nelle fasi di crisi. Innanzitutto, in termini generali, non va dimenticato che, lungo la direttrice élite-massa, i flussi simbolici non costituiscono mai semplice “comunicazione”, ma sono sempre finalizzati al potere. In secondo luogo, va considerato che, nelle situazioni di emergenza, la disposizione ricettiva del pubblico di massa viene enormemente estesa e rafforzata: la platea dei destinatari della comunicazione si allarga anche a coloro che, nelle situazioni normali, sono distratti, distanti e non interessati, e l’attenzione si intensifica qualitativamente. In terzo luogo, quanto ai contenuti e alle funzioni del simbolismo, la situazione di crisi richiede, per essere gestita con efficacia – cioè per orientare i comportamenti di massa nella direzione voluta –, un appropriato dosaggio del simbolismo di minaccia e di quello di rassicurazione. È importante sottolineare che soltanto la combinazione dei due registri è in grado di produrre gli effetti desiderati, siano essi nel senso della mobilitazione ovvero della smobilitazione e dell’acquiescenza. E ciò a sua volta esige non soltanto capacità di leadership non comuni, ma anche il coordinamento e l’unificazione dei flussi comunicativi nel caso in cui si sia in presenza di una pluralità di fonti autoritative.
Nel nostro paese, per tutta la durata della crisi ma specialmente nelle sue fasi più aspre, l’autorità politica ha mostrato serie difficoltà ad assicurarsi le condizioni minime per affrontare con successo la sfida. L’impiego di registri diversi da parte del governo centrale e dei governi regionali e locali in momenti cruciali della vicenda si è dispiegato in accentuazioni contrastanti, talvolta contraddittorie, del simbolismo di minaccia, con conseguenti effetti di disorientamento sulla cittadinanza. In tali condizioni, l’impatto sui comportamenti si indebolisce, e può essere rafforzato soltanto con interventi correttivi a ripetizione che sfociano inevitabilmente, agli occhi del pubblico, in una sorta di auto-delegittimazione della fonte che è costretta a ricorrervi. Questo fenomeno ha comportato una divaricazione dei flussi comunicativi.
Da una parte, l’autorità politica si è vista progressivamente costretta, di fatto, ad adottare uno stile comunicativo fortemente calibrato sul simbolismo di minaccia (si confrontino, a questo riguardo, gli interventi video del Presidente del Consiglio del 4, dell’11 e del 21 marzo), al punto da orientare in questo senso prevalente persino gli interventi del Capo dello Stato; e a rinunciare sostanzialmente al simbolismo di rassicurazione (il messaggio di Conte alla nazione del 21 marzo non ne reca quasi traccia). Dall’altra parte, questa funzione, che è vitale per l’attivazione dello spirito comunitario e per il disciplinamento della cittadinanza, è stata assunta dallo spontaneismo sociale (“andrà tutto bene”), che ha svolto un ruolo almeno parzialmente compensativo, e a cui non si poteva e non si può davvero chiedere di più.
Una sola agenzia ha saputo esibire nel nostro paese le capacità di modulare con efficacia il duplice codice simbolico richiesto dalle situazioni di emergenza: la Chiesa. Sotto la guida del Pontefice romano, questa istituzione bimillenaria ha mostrato per l’ennesima volta a noi e al mondo quanto sia importante riconoscere nel simbolismo una forza di determinazione autonoma delle disposizioni ad agire e delle azioni individuali, che opera sui codici valoriali e sulle sorgenti dell’emotività; e quanto sia utile disporre delle abilità e delle risorse per l’elaborazione simbolica e la sua propagazione. Del resto, non è certo una sorpresa che queste qualità siano esibite da una fonte che è per dir così “specializzata” nella gestione di risorse simboliche. Meno ovvio ne è stato però il dispiegamento in questa particolare congiuntura, e nella forma di un messaggio in cui le componenti comunitarie e sociali sono apparse nettamente più accentuate di quelle strettamente religiose.
La messa in campo di eventi comunicativi plasmati sul duplice registro di cui si è detto ha contrassegnato e contrassegna l’intera presenza della Chiesa nel frangente della crisi, ed è stata favorita anche dalla coincidenza con le festività della Pasqua. È vasto il materiale tra cui scegliere, e include, oltre alle cerimonie della settimana santa, la preghiera dell’Arcivescovo di Milano ai piedi della Madonnina, l’ostensione straordinaria della Sindone a Torino, la passeggiata solitaria del Papa nelle vie di Roma (si noti: del Papa, non dei vertici istituzionali della politica). Tuttavia, se c’è un’immagine che può essere additata come un’epitome dell’intera produzione simbolica della Chiesa, essa è quella della preghiera di Francesco nel deserto di Piazza San Pietro del 27 marzo. Sotto la pioggia battente, solo nella vastità della piazza, accanto al secolare Crocefisso che i romani portavano in processione nei tempi di pestilenza, il Pontefice ha elevato la sua preghiera e invocato la benedizione divina su Roma e sul mondo. La densità simbolica dell’evento è realmente eccezionale, i registri del simbolismo di minaccia e di quello di rassicurazione sono dosati con sapienza, e l’impatto ha potuto viaggiare ben oltre i confini della fede e della devozione. Un simbolo, si sa, è qualcosa che sta per qualcos’altro: e quella notte tutti gli elementi del quadro hanno concorso, ciascuno come singolo simbolo e nelle relazioni con gli altri, a creare la potenza dell’effetto, in una sorta di magia. Da una parte il simbolismo di minaccia, che pure la meteorologia si è incaricata di accentuare: la pioggia, che evocava nello spettatore lo sciame invasore del nemico invisibile; la solitudine dell’uomo vestito di bianco, in cui ciascuno poteva riconoscere e misurare la propria; la sofferenza del Cristo sulla Croce, che nella mente trasvolava nelle corsie affollate degli ospedali. Dall’altra, il simbolismo di rassicurazione, in funzione risolutiva, espresso nella solennità della preghiera e della benedizione, in cui si racchiudono la speranza e la fiducia nella liberazione.
Nella cinematografia americana del novecento, specialmente nei film di John Ford, come prima nel grande romanzo ottocentesco, si insegna che le persone rivelano la loro vera identità nelle situazioni eccezionali e drammatiche. Anche le istituzioni, come le persone, mostrano il loro vero volto quando sono chiamate a rispondere allo “stato di eccezione”. È auspicabile che i nostri gruppi dirigenti, e più in generale le classi dirigenti delle esangui democrazie liberali, imparino la lezione. Nessuna comunità umana, e nessun sistema politico che si incarichi di reggerla e di guidarla, possono sopravvivere a lungo se trascurano di alimentare quel substrato impalpabile fatto di significati, e cioè di simboli, che solo sa rendere l’essere umano capace di accettare e di conseguire ciò che, in termini puramente materialistici e utilitaristici, appare inaccettabile e irraggiungibile. È vero che le epidemie, come le guerre, non si vincono con i paternoster; ma è difficile combatterle efficacemente pensando di farne a meno.