Il Covid 19 per me ha un nome, si chiama schermo. All’improvviso il monitor di un PC ha fatto irruzione nella stanza d’analisi, s’è intromesso tra me e i pazienti, ci ha imposto un modo di comunicare sino al giorno precedente estraneo allo studio, ha scavato un solco profondo tra quella strana nuova, improvvisata coppia analitica che si sarebbe venuta a costituire e la storia di più d’un secolo di teorie ed esperienze del setting vissute nell’incontro personale, emotivo, diretto da donne e uomini fisicamente e dinamicamente in relazione.
Schermo viene da “schermare”, che vuol dire “proteggere”. L’etimo ha un ceppo germanico: Skirmjan, longobardo; tedesco Schirm, ombrello. Nessuna parentela dunque con le ben più frequenti ricorrenze latine, greche, semitiche presenti nella nostra lingua. Comunque, tenere una seduta analitica via Skype sembrerebbe rispondere perfettamente alle direttive emanate dal governo per contenere il virus, vale a dire: proteggere me dal possibile contagio che i pazienti rischierebbero di recarmi; proteggere i pazienti da un’infezione di cui potrei essere io il portatore; proteggersi tra loro pazienti nella catena del susseguirsi degli appuntamenti.
Il vis-a-vis, le due poltrone una davanti all’altra, oggi è un monitor su cui io vedo a tutto schermo l’inquadratura del volto del paziente e me stesso in un riquadrino in alto a destra.
Sono personali le mie considerazioni e si rifanno a un mondo specifico, peculiare, di nicchia: quello della Psicologia Analitica, come gli junghiani, sulla scia di Jung, chiamano il loro pensarsi, pensare e praticare la psicoanalisi. La particolarità però può costituire un utile vertice d’osservazione, da cui trarre spunti di riflessione più generali. Se non cercassimo aree d’incontro e di tensione fra travagli personali e situazione psichica del nostro tempo serviremmo a poco: forse neanche a noi stessi.
Ecco, allora, che azzardo alcune ipotesi di lettura sui nessi di senso che mi pare di intravedere in queste primissime ore di grande fatica che io, al pari di altre colleghe e altri colleghi indotti alla scelta forzata del ricorso allo schermo, sto compiendo per entrare in empatia con un corpo che non c’è e che pure è costitutivo della relazione analitica. Tengo a evidenziare la valenza assolutamente simbolica di tali letture. Mi vengono quattro ordini di riflessioni. La prima, che esprimo sotto forma di dubbio scattato in me con la forza di un’intuizione: già prima che il Coronavirus ci travolgesse noi eravamo infettati da un germe patogeno: quello della non-relazione. La seconda: il Covid19 mostra tutte le sembianze di un contrappasso. La terza: che la pandemia, ormai proclamata dalla OMS e definita da più parti come possibile “catastrofe umanitaria”, è davvero catastrofe se riportata al senso originario del termine: katastrofé, totale rovesciamento dei punti di vista; diversamente sarebbe solo un buco nero, un vortice depressivo collettivo di cui è difficile valutare la portata. La quarta fa da corollario alla precedente: se e a che cosa sarà servito l’assalto di questo nemico invisibile.
Quanto al primo punto basta una constatazione che può apparire banale nella sua semplicità: da tempo siamo iperconnessi grazie ai social, ma la comunicazione globale è poverissima di relazioni autentiche. In umanità ci siamo impoveriti. Anche per drammatizzare la presa di coscienza del fenomeno, ricorro al potere evocativo di due immagini. Una è un po’ estrema: mi riferisco a quel che accade con la “sindrome di Hikikomori”. L’altra rimanda agli sbarchi dei migranti nel nostro Paese, quando finalmente le navi delle ONG hanno potuto attraccare ai nostri porti. Come si sa è chiamata Hikikomori la sofferenza dei giovani che si chiudono alla vita (famiglia, scuola, amicizie), si rintanano nella loro camera e lì, attraverso il PC, sono connessi con il mondo intero in modo virtuale.
Hikikomori: la sofferenza dei giovani che si chiudono alla vita
Dicono colleghe e colleghi che si dedicano alla cura degli adolescenti che le origini sono lontane. La sindrome è stata riconosciuta in Giappone, dove pure le è stato dato il nome, che vuole dire “ritirarsi”, “porsi in disparte”, “isolarsi”, ma dal lontano Oriente il fenomeno s’è propagato, ha letteralmente “contagiato” l’Occidente ricco e sviluppato. Tale sembra essere la corrispondenza di tante drammatiche scelte giovanili alle inadeguatezze dei tempi che tale sindrome è sempre più diffusa nel mondo ed è ben attestata ormai anche in Italia. L’altra immagine, quella che ha popolato per settimane gli schermi televisivi, è costituita da personale che sul molo fa scendere i migranti protetto da tute e mascherine; misure precauzionali, evocative delle bardature degli operatori sanitari oggi alle prese con il Coronavirus, allora accompagnate da prese di posizione esplicite del governo gialloverde, secondo le quali gli immigrati portavano malattie. Insomma, andavano considerati come virus.
Parlavo di “contrappasso” a proposito della seconda riflessione. In termini più affini alla psicoterapia credo che non costituisca una forzatura riprendere Watzlavick e la Scuola di Palo Alto, quando individuarono la “prescrizione del sintomo” come via alla presa di coscienza e quindi alla cura. Sia che si scelga l’approccio più letterario, il “contrappasso” di Dante, sia che ci si riferisca all’impostazione sistemica, l’area di senso è questa: non comunicate più tra voi? Non vi relazionate? Riuscite a stare assieme solo in assembramenti, nei centri commerciali, negli happy hours, il sabato sera? Ecco, adesso col Covid19 dovete prendere le distanze; la vostra sicurezza dipende dalla capacità di stare lontani, mettervi in isolamento. Condizione questa che potrebbe essere anche salutare se si fosse preparati ed abituati a stare soli, a fare i conti con se stessi. Il dato che sia un virus sconosciuto a far dichiarare che la vicinanza è di per sé potenzialmente infetta rende ancora più drammatica la situazione, esalta gli aspetti prescrittivi: necessità di non toccarsi, di distanziarsi, di stare lontani. E qui scatta il paradosso: per raggiungere l’obiettivo di sconfiggere il virus bisogna in realtà stare insieme, nutrire una tensione comune, condividere le misure, capire che se non seguo le regole faccio male non solo a me ma anche agli altri; insomma farsi persuasi che ci stiamo giocando tutto sulla soggettività, sulla responsabilità personale. Ancora il paradosso: ad una collettività portata individualmente e attraverso forme organizzate private o pubbliche, nazionali e internazionali a farsi ciascuno gli affari propri (vedi recenti sovranismi, populismi, Brexit e Trumpismo) si chiede, nei fatti, di ritrovarsi in una condizione di “comunità consapevole” e non di “conglomerato anarchico di esistenze separate”, come scrisse Jung nel 1941 mentre divampava il 2° conflitto mondiale. O in termini più recenti, si fa appello alla coscienza individuale di “farsi prossimo”: riprendo, per la sua potenzialità e l’efficacia l’espressione introdotta dal Cardinal Martini, un pilastro della sua pastorale e del lascito. Insomma, si esorta a condividere il destino comune, a prendersi carico l’uno dell’altro. Il comando paradossale (che è poi quello che stanno impartendo le autorità e le campagne informativo/pubblicitarie) è: lontani e insieme; individualità e socialità; singolarità e comunità.
Se non si sconfigge il virus è una catastrofe. La parola che sta al centro della terza riflessione ci rimanda dritti alla ricerca di senso di ciò che sta accadendo. Ė già catastrofe: se non accettiamo il conflitto interiore e collettivo che viene dallo star dentro la catastrofe non rendiamo il giusto merito alle sofferenze delle migliaia di contagi, dei morti, dello stuolo di medici, infermieri, volontari, scienziati, ricercatori impegnati allo spasimo in un’impresa di cura di cui non so i precedenti. Ovvero, nella memoria mia e della mia generazione: la Guerra Mondiale. Insomma: la parola catastrofe all’origine vuole dire “capovolgimento” (katà, “giù”, strephéin, “voltare”: capovolgere i punti di vista era la funzione catartica della tragedia greca).
Certo è dura oggi, in piena emergenza, far passare riflessioni sulla visione generale entro cui si iscrive il contingente. Ma gli sconquassi, i patimenti, le angosce, saranno serviti a qualcosa (e questa è la quarta e ultima riflessione cui si accennava) se, oltre ad arginare il contagio, limitare al massimo i danni, curare, far guarire il numero maggiore di persone, trovare un vaccino, avremo imparato a raggiungere la condizione psichica minimale di “non indifferenza”. Espressione molto felice questa usata di recente da Roberta De Monticelli. Vuol dire prendere coscienza, come scrive appunto la De Monticelli che l’«indifferenza è allora una sorta di ottusione cognitiva, cecità del cuore, rimozione della cognizione del valore. Che è anche e soprattutto cognizione del dolore, visto che i mali prevalgono sui beni». La filosofia fa la sua parte in quest’opera di responsabilizzazione. E gli analisti, passata, speriamo presto, l’emergenza/schermo possono fare la loro nel restaurare le ragioni della relazione. In nome della ragione costitutiva del loro lavoro, appunto, l’umanità della relazione, gli analisti possono uscire dalla nicchia degli studi professionali e riconoscere di essere quello che il loro impegno li fa essere, cioè “sentinelle” delle relazioni, posti per propria scelta (nessuno ci obbliga a fare gli analisti) sulle mura delle città a cogliere ogni segnale di infezione, di malattia possibile, di degenerazione in termini di umanità. Un esempio recente dice che si può fare. Un anno fa, in occasione dei salviniani Decreti Sicurezza le Società analitiche, diverse per scuole e appartenenze ma mosse da una preoccupazione etico civile comune, si ritrovarono in una denuncia pubblica del clima di “disumanità” che stava pervadendo il Paese. E scrissero anche al Presidente Mattarella.
Torna utile anche oggi il versetto di Isaia (21, 11-12): «Sentinella, a che punto è la notte?» […] E la sentinella risponde: «Viene la mattina, e viene la notte». Ecco, esser vigili nella consapevolezza di una verità psicologica: che la notte buia è culla del sole mattutino.
Attenti, però: la luce non è in fondo al tunnel, come solitamente si dice, ma in ogni passo che compiamo.