Scienziata politica

Sedici anni da Genova, sedici anni di silenzio per un’intera generazione politica. Tristemente noti alle cronache per gli scontri di piazza tra polizia e manifestanti, quei giorni significano ancora molto altro per la storia della sinistra e dei movimenti sociali in Italia: un processo interrotto di costruzione di alleanze inedite (associazionismo, partiti, società civile, corpi intermedi), di progetti di sviluppo territoriale dal basso, di innovazione organizzativa del partito che “rifondava” quello comunista e che avrebbe di lì a poco tradito le aspettative dei suoi giovani. Veniva chiamato il movimento dei movimenti, era globale e locale, femminista, ambientalista, altermondialista. L’ultimo movimento di massa capace di avanzare istanze che riguardassero le condizioni di altri, gli ultimi della terra, e non solo quelle legate a diritti propri. Una narrazione epica, biografie segnate per sempre da un’esperienza totalizzante di militanza, formazione, sistema di relazioni personali, eredità politica. Un movimento generazionale ma non generazionalista, generalista ma non qualunquista.

La cifra dell’assenza di quel movimento dalla politica, oggi, ha a che fare con la necessità di ripristinare alcuni punti di attenzione – scomparsi dal dibattito pubblico insieme a chi li difendeva – senza i quali sta diventando insostenibile affrontare, sistemicamente, le emergenze sociali del nostro tempo.

Pensiamo ad esempio al concetto di cittadinanza globale, frettolosamente sostituito con quello di cittadinanza europea. Un orizzonte più ristretto, che sembra oggi il massimo dell’apertura che ci possiamo permettere. Quindici anni fa, quasi chiunque a sinistra lo avrebbe considerato una narrazione inadeguata per pensarsi all’interno di una società multiculturale. Una società che farà inevitabilmente sempre più i conti con l’alterità a livello locale e globale e che non potrà permettersi di restare un passo indietro nel guardare il mondo in tutta la sua complessità. Recuperare profondità di pensiero è essenziale per affrontare la complessità. Così come tornare ad avere il coraggio di avere posizioni radicali. Ripartire da istanze come l’accesso all’approvvigionamento culturale per tutti, come risorsa fondamentale per l’emancipazione di ognuno. Ricominciare a pronunciare parole scomode scomparse dal linguaggio comune come ‘’poveri’’, ‘’privilegiati’’. Ricominciare a reclamare il lavoro senza il quale ci siamo ridotti ad essere adulti incompiuti, cittadini incompleti, élite culturali squattrinate.  Recuperare l’ambizione di allargare la sfera della partecipazione politica. Per quanto tempo ancora potremo raccontare che chi non ha accesso agli spazi delle riflessioni del ceto medio istruito è un elettore di serie b e che troveremo il modo di tenere fuori la sgradevolezza delle sue posizioni populiste dal dibattito e dalle decisioni? Poco, temo. Serve una riflessione complessiva e realistica sull’accesso ai diritti politici ed economici di vecchi e nuovi cittadini. Elementi che credevamo acquisiti dalla collettività, che probabilmente sarebbero rimasti tali se negli anni a venire non fossero rimasti feticci di forze politiche minoritarie per vocazione e orfane di una vocazione al cambiamento.

L’innegabile eredità di quella onda, per la nostra generazione, è stata l’educazione a una maniera politica di guardare il mondo e di agire nel quotidiano. Una maniera che è difficile disimparare e che ci vede condannati a contraddizioni e tensioni etiche nelle scelte di vita, ordinarie e straordinarie, personali e professionali. Una condanna ma anche una traccia utile per provare a capire dove siamo finiti, considerato che siamo silenziosi ma vivi. Ho cominciato a pensarci nel ritrovare progressivo, in contesti che frequento per lavoro, molte storie personali legate alla stagione dei movimenti sociali dei primi anni duemila. Parlo, con la consapevolezza di avere un osservatorio limitato, del mondo della ricerca e di quello delle pratiche dal basso che chiedono alla politica di essere abilitate.  Di quello della imprenditoria sociale che ridisegnando il welfare state e di quello della ‘’rigenerazione urbana’’ che tiene il punto sull’importanza dei luoghi fisici dentro i processi trasformativi delle comunità e dei territori. Penso agli artigiani digitali e ai makers che rivendicano l’autonomia da filiere produttive esclusivamente estrattive di valore. Alle imprese culturali che fanno massa critica e pressione sulle istituzioni, in difesa del lavoro creativo.

Nei fatti una fetta della generazione di Genova ha sedimentato e sedimenta ogni giorno impegno sociale e politico, in modo formale e informale. Ci siamo ritrovati a fare politica attraverso il lavoro e a non fare il lavoro della politica. Sviluppando competenze e consapevolezze distintive che oggi probabilmente mancano a chi ha proseguito la carriera politica tradizionale.

L’intenzione alla produzione di valore condiviso rende i protagonisti di questi ambiti di pensiero e pratiche più simili, paradossalmente, a imprenditori e manager (spesso prima di tutto di se stessi) che a quelle categorie professionali tradizionalmente affini all’impegno politico. Con una marcata attitudine al “fare” più che al proclamare. A stare tra le cose del mondo, a contatto con la vita reale dei territori, a vivere di relazioni e a sopravvivere attraverso “reti”. A mettere a disposizione di chi amministra la cosa pubblica quello che hanno imparato in questi anni.

Il sociologo Aldo Bonomi, nella ricerca “Nuova Economia leggera e innovatori diffusi a Milano: soggettività e politica” lancia una provocazione forte: questa condizione è stata una questione di adattamento o una scelta consapevole?

Io penso che abbiamo il compito di indagare più a fondo il come e il dove, ma soprattutto attraverso chi, questo processo trasformativo stia avendo luogo, nei campi della produzione immateriale e materiale.

Penso a una ricostruzione, a una ricucitura attraverso un viaggio nel tempo che inizia dall’espressamente politico ma con scarsa ricaduta pratica (il prima), che passa per l’implicitamente politico immerso nelle pratiche (l’ora), e che si proietti al ritorno alla discussione politica. Con una maggiore consapevolezza relativa alle contraddizioni della realtà e agli strumenti per cambiarla.

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