Nell’attuale dibattito politico sono diversi i commenti estemporanei sul ruolo della formazione e della scuola nell’epoca di profondo cambiamento che stiamo vivendo. Verrebbe da dire che molti si permettono di esprimere giudizi sul tema e forse pochi, a fronte di tanti giudizi, si prendono il tempo di ascoltare e fare domande per cogliere i reali bisogni e i problemi che quotidianamente i dirigenti scolastici, gli insegnanti e i formatori si trovano ad affrontare per evitare che la scuola rimanga nella solitudine delle difficoltà che qualsiasi processo evolutivo della società impone.
Troppo spesso la scuola fa notizia solo nel caso di eventi straordinari e critici; non interessa il sistema di valutazione nazionale; non interessa come funziona o non funziona il successo formativo; non interessa capire che differenza fa scegliere un liceo o un istituto tecnico o professionale; non interessa sapere se la scuola crea condizioni di promozione sociale o no; non interessa capire come si sta modificando il rapporto con il pensare e il sapere nella nostra società e dentro l’aula; non interessa sapere se conviene frequentare una classe eterogenea con dentro alunni disabili, stranieri, di basso livello culturale o invece una classe omogenea con simili livelli di provenienza sociale; non interessa sapere in che modo fa la differenza un docente piuttosto che un altro; non interessa sapere se dei contenuti di insegnamento fanno la differenza piuttosto che altri, in che modo faccia la differenza una metodologia didattica piuttosto che un’altra; non interessa definire, una strategia di sviluppo del Paese che ponga al suo centro il ruolo fondamentale dell’istruzione quale motore di crescita e progresso sociale.
Portare i problemi della formazione al centro del dibattito culturale e sociale è il primo passo per accrescere consapevolezza su ciò che realmente fa problema e per attivare un’assunzione di responsabilità collettiva che dall’ascolto, dal confronto e dalla mediazione sia in grado di identificare risposte concrete per un’istruzione al passo coi tempi. Questo è stato l’obiettivo del workshop che la Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ha organizzato il 17 dicembre 2018 presso l’Istituto Gentileschi di Milano assieme a professionisti e operatori del settore educativo che sperimentano in prima linea le implicazioni reali delle trasformazioni che interessano il mondo della formazione, ne vivono le criticità e, perciò, sono depositari delle istanze che possono e devono orientare quel cambio di sguardo al futuro in cui l’istruzione possa rivestire un ruolo pivotale per la crescita del Paese.
Dall’itinerario polifonico degli interventi che si sono susseguiti nel corso dell’incontro emerge innanzitutto il compito della scuola, che secondo quanto afferma Nora Terzoli, Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo Bellusco Mezzago, è chiamata ad affrontare una duplice sfida: “da un parte quella di essere inclusiva e quindi di non lasciare indietro nessuno. Dall’altra, quella di essere profondamente sfidante in un cammino di conoscenza”. Sul tema Lorenzo Alviggi, Dirigente dell’Istituto Gentileschi di Milano, afferma l’urgenza di interrogarsi su come la scuola possa riprendersi il suo ruolo sociale di formare e modellare lavoratori e cittadini del domani. Per fare questo occorre ricostruire nel tempo un rapporto solido con le famiglie che negli ultimi anni è andato perdendosi: “Dobbiamo riappropriarci del nostro ruolo nel rapporto con le famiglie che negli ultimi anni ha visto acquisire un potere e una capacità di venire da noi a scuola a dirci come fare il nostro lavoro. Questa mattina un genitore un genitore mi ha segnalato un problema a cui dobbiamo trovare una soluzione, ma nella conclusione della sua mail c’era scritto: “Mi faccia sapere tempestivamente come intende risolvere il problema”. Ecco questo è una cosa che difficilmente si chiede un ingegnere edile a cui si affida la ristrutturazione di una casa o a un medico a cui si affida la propria salute”.
È difficile dire se siano i docenti a non essere allineati con i genitori o se siano i genitori ad avere ritirato la loro delega alla scuola, ma su un dato i partecipanti al workshop sembrano concordare: la vecchia alleanza tra scuola e famiglia si è negli anni parecchio incrinata, anche alla luce delle esperienze informali di apprendimento che la tecnologia ha contribuito a produrre al di fuori degli ambienti scolastici. Ciò nonostante i genitori non si possono sottrarre, nell’educazione dei propri figli, al rapporto di interazione e scambio con il mondo della scuola. Genitori e insegnanti devono tornare a dialogare fra loro e a confrontarsi, non tanto su tematiche di apprendimento quanto sull’educazione dei ragazzi in età adolescenziale, anni complessi nei quali si gettano le basi per una futura realizzazione di sé.
Monica Marelli, Dirigente Scolastico dell’Istituto Comprensivo Statale Rovellasca, propone di educare gli interlocutori della scuola, e quindi anche i genitori, sull’importanza non solo del contenuto – cosa si impara – ma anche sulle rilevanza che la metodologia di apprendimento possiede nello sviluppare un pensiero critico all’interno degli studenti.
In questo senso emerge la consapevolezza di come la scuola non riesca ancora ad alimentare una cultura che sia costruzione e che arrivi quindi a produrre una cittadinanza critica. Ne sono causa anche i cambiamenti del contesto sociale e culturale in cui vivono oggi i ragazzi e la realtà che ne discende rispetto alla quale le istituzioni scolastiche sembrano essere distaccate, incapaci di gestire il cambiamento epocale che interessa la società intera. Afferma Lorena Peccolo, ex dirigente scolastico e membro dell’Associazione dei dirigenti e delle alte professionalità della scuola (ANP): “Abbiamo la consapevolezza che c’è un cambiamento antropologico nei giovani. Gli strumenti tecnologici hanno accelerato lo stimolo risposta degli studenti, che è completamente diverso da quello sviluppato negli anni a scuola. Siamo davanti a un gran cambiamento antropologico e non lo sappiamo gestire. Abbiamo anche un cambiamento tecnologico davanti, da cui siamo molto spaventati. Sul tema, continua Giovanna Venturino, membro dell’Unione Cattolica Italiana Insegnanti, Dirigenti, Educatori, Formatori: “Si avverte la necessità di ingaggiare i giovani per capire qual è il senso del loro apprendimento e quale responsabilità essi hanno all’interno della società, perché questo ai giovani manca”.
La difficoltà della scuola di adattarsi e accogliere la realtà all’interno delle sue attività didattiche è riconducibile in parte a una sua impostazione classista. Laura Barbirato, Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo Statale “Via Maffucci” ha le idee chiare su questo punto: “Basti guardare com’è organizzata tuttora la scuola: i banchi la rendono più convergente che divergente. Tutto l’apparato strutturale della scuola ancora adesso, nonostante tutti gli sforzi che facciamo, continua ad essere più una riproduzione del sapere che una produzione. Nel modello classico dell’istruzione l’insegnante spesso insegna o riproduce quello che c’è scritto sul libro di testo. L’alunno ascolta ed è poi chiamato a riprodurre, tramite un’interrogazione o in qualche altro modo quei contenuti. Questo è il modello standard, che vedo prevalere, nonostante tutta la nostra fatica. Quindi se noi non riusciamo a trasformare la scuola in un laboratorio di conoscenza, in uno spazio in cui si faccia ricerca, in cui ci si lega con il territorio, siamo destinati a non stare sul mercato. Ma anche dal punto di vista di altre agenzie educative che ci fanno la concorrenza, prima tra tutti la rete. E ancora quest’inerzia del sistema esiste. Ci sono proprio degli elementi che tendono a conservare il sistema in maniera rigida, piuttosto che ad aprirlo perché la scuola diventi davvero un’agenzia culturale e in verità le potenzialità ci sarebbero. Spesso siamo tutti ingabbiati in queste inerzie che ci legano e ci impediscono di andare oltre, prima tra tutti l’attesa dei contenuti. “Quante più cose sai, tanto più cultura hai”. In realtà è: “quanto meglio tu sai utilizzare quello che sai in maniera produttiva, tanto più hai cultura”.
La scuola dunque come laboratorio di conoscenza e produzione del sapere, ma anche come luogo di incontro con gli attori del territorio affinché anche all’interno delle mura scolastiche si possa recuperare una dimensione esperienziale dell’apprendimento. Nora Terzoli afferma che “Nella nostra scuola la realtà è spesso dimenticata. I ragazzi vivono la loro realtà all’interno di uno schermo. La provocazione reale della conoscenza, che ha un impatto con la realtà, è difficile da portare a scuola perché il sapere è ancora troppo spesso accademico, dove l’”io” non è realmente provocato e in cui non si fa esperienza di cosa sia la conoscenza e la realtà che ti circonda, proprio come arricchimento umano”.
Il rischio che la tecnologia allontani ulteriormente i giovani da un contatto concreto con la realtà non è elemento di poco conto come afferma Paolo Maino, Istituto Comprensivo De Amicis: “Le attività ludico culturali non strutturate – giocare con delle foglie, dei sassi, delle ghiande a mero titolo esemplificativo – sono oggi sempre più difficili da fare perché il giovane a casa è bombardato da mille altre cose. Ovviamente sappiamo che può essere più comodo per un genitore che torna a casa stanco, mettere i propri figli davanti a un tablet o uno smartphone. Ma qual è il deficit? Il deficit è la grande assenza dell’esperienza, cioè il contatto e la scoperta delle cose semplici della realtà”.
Dinanzi a questo scenario è necessario interrogarsi su quale debba essere oggi il cammino dello studente. Una risposta univoca certamente non esiste, ma tra i partecipanti vi è unanimità nel riconoscere la necessità di attivare una sintesi tra i saperi tecnologici, il sapere umanistico e scientifico al fine di abilitare percorsi formativi in cui il fare concorre con il sapere alla formazione del saper pensare. “Introduco un altro elemento che mi sta molto a cuore, ovvero la distinzione, che credo sia ancora e più presente in Italia che nel resto del mondo: la distinzione tra il sapere formale e il sapere applicato. Secondo questa distinzione la cultura di seria A è quella del liceo, dove si sanno molte cose e si sanno i termini spesso solo formali, mentre la cultura applicata, tecnica e professionale è quella di serie B. Abbiamo due mondi che spesso non si parlano, da una parte una cultura che gira su sé stessa, dove la disoccupazione intellettuale è sotto gli occhi di tutti. Dall’altra parte una conoscenza pratica non illuminata dall’altro settore. Io credo che anche su questo l’Italia dovrebbe trovare un punto di incontro, a vantaggio di tutti” sostiene Lorena Barbirato. Il tutto, appunto, senza tralasciare l’importanza dei saperi umanistici. Afferma Paolo Maino: “Se Dante e l’arte sono avulsi dai nostri studenti, lo dico un po’ provocatoriamente, l’Italia è finita perché l’arte, la musica e ciò che di bello contraddistingue il nostro Paese non possono essere lontani dall’esperienza quotidiana”.
Progettare nuovi percorsi formativi di conoscenza e apprendimento per i giovani, nel solco delle trasformazioni antropologiche e sociali che stiamo vivendo, richiede coraggio, forza di pensiero, immaginazione, strutturazione e de-strutturazione di scenari alternativi, anche radicali rispetto al presente. Chi l’ha detto che il sistema di valutazione tradizionale – il voto – sia ancora oggi uno strumento valido per rimarcare la crescita di un giovane? “I professori passano più tempo a valutare che insegnare, c’è una deformazione. E l’unico potere che hanno i professori è quello del voto. Rimarchiamo sempre con il voto, tu non sei mai abbastanza adatto” sostiene Lorena Peccolo.
Se la sfida che abbiamo di fronte è quella di promuovere un’istruzione che sia in grado di garantire a tutti opportunità di apprendimento per conoscere, vivere assieme e condurre una vita autonoma serve una mediazione continua e strutturata tra tutti gli attori (Istituzioni, Scuole, Imprese, Università, Terzo Settore, Società Civile) coinvolti a pieno titolo nel perseguire una responsabilità sociale dell’educazione per capire, leggere e affrontare i cambiamenti che abbiamo davanti affinché vengano tradotti in percorsi formativi capaci di valorizzare le singolarità degli individui e responsabilizzare i giovani rispetto al mondo in cui viviamo. Con una duplice consapevolezza: da un lato la scuola non può e non deve coprire tutto l’orizzonte formativo. Ci sono altri ambiti, che col tempo sono stati abbandonati, ma che devono risorgere per la loro funzione educativa: le famiglie appunto, ma anche i contesti educativi diffusi del Terzo Settore, l’associazionismo e il volontariato, solo per citarne alcuni. Dall’altro, la necessità che gli adulti recuperino un orizzonte di senso in relazione ai contenuti e alle modalità di apprendimento che debbono essere oggi al centro dei percorsi formativi.
Promuovere dunque un reale cambiamento in ambito educativo attraverso un processo partecipato di ascolto, confronto, co-progettazione e innovazione dell’attuale sistema pubblico dell’istruzione, fare leva sulla tecnologia come strumento per un nuovo approccio pedagogico, progettare percorsi formativi in cui si valorizzi la dimensione esperienziale dell’apprendimento e la conoscenza della realtà, interessarsi dei problemi che affliggono l’educazione e investire in essa come chiave di volta per la crescita per il Paese: è una scelta, lo si decide.
La Fondazione Giangiacomo Feltrinelli ringrazia per la partecipazione:
- Associazione nazionale dirigenti e alte professionalità della scuola,
- Unione Cattolica Italiana Insegnanti, Dirigenti, Educatori, Formatori;
- Associazione Nazionale Dirigenti Scolastici;
- Associazione Dirigenti Scolastici DiSAL;
- Associazione Italiana Formatori;
- Yezers.