La pandemia di Covid-19 ha attirato un rinnovato interesse per il rapporto tra politica e scienza. I media generalmente inquadrano questa relazione come un’antinomia tra le parole competenti della scienza e gli interessi elettorali della politica. Anthony Fauci e Donald Trump rappresentano perfettamente i due volti di questa narrativa: l’eroe, l’immunologo guidato dalla competenza, e l’antagonista, il politico guidato dai propri elettori. Un aspetto spesso trascurato, però, riguarda le relazioni all’interno delle scienze e tra scienze diverse. Il consenso tra gli scienziati è tutt’altro che universale, e in particolare nel caso del Covid-19; inoltre, discipline diverse sottolineano problemi e soluzioni diversi. Questo pluralismo, in aggiunta, è quotidianamente rappresentato sia nei media tradizionali che sui social, con diversi effetti sull’opinione pubblica, la sua fiducia negli esperti e nella scienza, e la sua propensione a seguire le disposizioni.
In primo luogo, bisogna considerare che ci sono opinioni diverse, e talvolta contraddittorie, anche tra esperti medici, virologi e immunologi. Che il disaccordo sia un aspetto fondamentale del progresso della ricerca scientifica è ovvio per chiunque sia impegnato in questo settore, ma lo è molto meno per il grande pubblico. C’è una differenza quasi fisiologica tra il peso che i non esperti attribuiscono alle opinioni degli esperti e quello che vi danno gli esperti stessi, soprattutto quando il disaccordo (o il conflitto) è enfatizzato dai media. L’incertezza, infatti, può influire sia sulla misura in cui il pubblico traduce le informazioni scientifiche in comportamenti individuali (con i relativi effetti sulla salute pubblica) sia sulla sfiducia verso esperti e decisori e la diffusione di fake news, disinformazione e teorie del complotto.
Inoltre, diversi saperi scientifici si concentrano su diverse problematiche. A metà aprile Walter Ricciardi, uno dei più importanti epidemiologi in Italia e attualmente consulente del Ministero della Salute sulla crisi del Covid-19, twittava: “Formare un epidemiologo è una delle cose più lunghe e difficili che si possano fare, ma in quattro mesi di epidemia ho visto economisti, sociologi, giornalisti, clinici, psicologi, manager, politici acquisire incredibili capacità senza mai aver frequentato nemmeno un corso breve”. Alcuni giorni dopo, Giovanni Rezza, un altro eminente scienziato e membro dell’Istituto Superiore della Sanità (ISS), commentava come il rischio accettabile di contagio fosse inevitabilmente relativo: “per un uomo di sanità pubblica il rischio accettabile è zero e per un economista è dieci, dipende dal punto di vista. La politica deve fare una sintesi”.
Alle istanze spesso contrastanti offerte dalle diverse discipline scientifiche, insomma, si aggiunge il ruolo peculiare della politica come mediatore fra le scienze. Se la cronaca ha spesso presentato una narrazione che contrappone lo scienziato (“puro e consapevole”) al politico (“corrotto e in malafede”), la realtà è più complessa: i media, la scienza e la politica interagiscono e danno forma a posizioni e azioni reciproche in modi diversi.
L’imminente recessione, probabilmente la peggiore dalla seconda guerra mondiale, che solleva tensioni psicologiche e sociali, aggraverà ulteriormente la distanza tra le prescrizioni della medicina e di altre scienze. Dato questo quadro, emerge ancora più chiaramente la peculiarità della politica: piuttosto che essere un’antagonista della/e scienza/e, la politica si distingue come mediatore tra di esse, cercando di sintetizzare nella logica del potere e del consenso le istanze tendenzialmente monotematiche sollecitate dai diversi campi della conoscenza. Infatti, durante la crisi del Covid-19, diversi attori politici a qualsiasi livello (municipale, regionale o nazionale) hanno interagito (o meno) con scienziati ed esperti di varie discipline, e da questa interazione sono derivate scelte politiche e di salute pubblica che hanno avuto conseguenze sull’opinione pubblica e sui comportamenti dei cittadini.
In questa dinamica, media tradizionali e social media giocano un ruolo cruciale per diversi motivi: in termini generali, contribuiscono a costruire la percezione del consenso o del disaccordo tra gli esperti sia all’interno che tra le scienze; riferiscono e informano su sviluppi e disposizioni; spesso mediano la ricezione delle politiche da parte dei cittadini. Tuttavia, durante la pandemia alcuni dei cicli viziosi (e virtuosi) tra politica, media e scienze sono stati esacerbati.
Alla sovrabbondanza di comunicazione e informazioni, e alle problematiche che essa ha generato anche in termini di creazione di disinformazione, si sono aggiunte altre due caratteristiche dei media: da un lato, la tendenza a massimizzare la certezza e l’assertività piuttosto che le ipotesi e la complessità dei saperi scientifici; dall’altro lato, la tendenza a spettacolarizzare e polarizzare la rappresentazione del conflitto tra scienziati. Se un flusso di informazioni completo e affidabile può contribuire a rafforzare la fiducia nei confronti degli esperti, non è così quando a essere enfatizzate risultano confusione (anche fra i diversi campi di conoscenza degli scienziati: per il pubblico poco conta che un medico sia virologo, infettivologo o epidemiologo) o peggio ancora la polarizzazione delle posizioni veicolata attraverso i pareri degli esperti.
In questo difficile contesto, i responsabili politici in generale sono chiamati a prendere decisioni difficili e ad attuare politiche spesso drastiche. Il ruolo peculiare della politica è quello di accogliere, elaborare e sintetizzare le diverse istanze provenienti sia dalla scienza che dalla società in generale, venendo incontro alla necessità oggettiva di gestire i compromessi irrisolvibili tra e all’interno degli esperti.
Durante le prime settimane, cruciali per l’esito della pandemia almeno in alcune zone del Nord Italia, la risposta è variata notevolmente tra i diversi attori della scienza, della politica e dei media. Mentre la coppia di turisti cinesi veniva ricoverata a Roma (29 gennaio), seguiti dal “paziente zero” di Codogno (19 febbraio) e dall’adozione delle restrizioni per gli 11 comuni delle “Zone Rosse” (22 febbraio), sino al blocco nazionale del 9 marzo, anche gli scienziati erano divisi sul pericolo del Covid-19 e sulle misure di contenimento proposte. Quando è apparso più chiaro che l’epidemia circolava in Italia da settimane prima del paziente zero, i suggerimenti della comunità scientifica sono diventati più omogenei: ridurre al minimo i movimenti, adottare tutte le misure sanitarie possibili, praticare il distanziamento sociale e supportare le decisioni del governo.
Allo stesso tempo, i media si sono popolati di testimonianze di medici e scienziati che facevano il punto sul contagio e le prospettive di prevenzione e cura. Come già avvenuto in politica e in svariati altri campi della vita associata, si è osservata una marcata personalizzazione anche della scienza intorno a un numero piuttosto limitato di protagonisti. I meccanismi di spettacolarizzazione e polarizzazione, però, possono essere efficaci in contesti intrinsecamente competitivi come la politica, o lo sport, o il mercato della cultura popolare. Nella scienza, viceversa, gli effetti sull’opinione pubblica rischiano di essere più problematici. Vi è infatti il serio rischio che in questo modo il pubblico fatichi a coglierne l’autorevolezza dei risultati, o che via via la crescente politicizzazione dei dati e delle interpretazioni, oltre a generare “fans” e “haters”, indebolisca la solidarietà nei comportamenti collettivi.
Passato il momento della comunanza e del consenso nazionale, del “rimanere distanti oggi per poterci riabbracciare più forte domani”, l’urgenza di favorire soluzioni e proposte politiche di sintesi si fa ancora più pressante nella fase della ricostruzione e della ripartenza avviata nelle scorse settimane, in cui la politica sarà chiamata a prendere decisioni difficili e attuare politiche per alcuni aspetti forse ancora più drastiche di quelle decise durante le fasi più critiche dell’emergenza sanitaria. Ricevere, elaborare e sintetizzare le istanze provenienti sia dalla scienza che dalla società in generale non pertiene tanto a una concettualizzazione “idealista” o “ingenua” della politica, quanto al fatto che essa è l’unico attore che possa e debba legittimamente assumersi questa (forse ingrata) responsabilità.